“E' stato soprattutto un padre comprensivo in una società che di padri ne ha sempre meno, pur avendone un disperato bisogno”. Sono parole forti, sgorgate dal cuore, persino irrituali quelle con cui il direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli ha ricordato la scomparsa del cardinale Martini. “Fu un padre e un maestro in una società che di padri e maestri ne ha sempre meno”, spiega. “In un'epoca di valori annacquati e di passioni tristi la sua parola ha rappresentato una bussola morale. Nel mezzo di un periodo storico in cui assistiamo a un processo di secolarizzazione che non risparmia nemmeno la Chiesa, all'indebolimento dell'etica pubblica e dei legami comunitari, ho posto attenzione a segnalare la testimonianza civile, ancor prima che pastorale, del cardinale, grande educatore alla coscienza civica”.
Sorprese, e al tempo stesso affascinò, nella parte finale dell'esistenza dell'arcivescovo, l'umiltà con cui diede voce alle sue paure, ai suoi dubbi. “A volte i dubbi vengono considerati una forma di relativismo etico o di indifferenza, ma io in lui non trovai affatto questo”, dice De Bortoli. “Molti di noi ricordano esempi di sacerdoti che sostituivano la figura paterna, sacerdoti che integravano il lavoro dei maestri: erano uomini di grande umiltà, forse non dotati di un'istruzione eccelsa, ma sempre pronti a sedersi accanto ai fedeli, condividendone paure e incertezze. Il che non significa indebolire la fede, ma, al contrario, rafforzarne l'identità. Allora perché il cardinale Martini fu visto come una figura quasi eccentrica, eretica persino, più vicina al protestantesimo? Fu, invece, un felice incrocio fra un grande biblista e teologo e un parroco che sta accanto alla gente, portatore non solo di verità dogmatiche, impegnato senza sosta a portare il Vangelo nel contesto in cui viveva”.
L'editoriale che il direttore ha firmato all'indomani della morte dell'arcivescovo si chiudeva con un auspicio: che il Papa prendesse parte ai funerali, come segno dell'unità della Chiesa. “Era solo un auspicio, col quale intendevo segnalare una grande opportunità”, precisa De Bortoli. “La Chiesa ha vissuto la sua corsa verso la modernità attraverso alcuni gesti simbolici di grande efficacia: la visita ai carcerati di Giovanni XXIII, il “non abbiate paura” o la visita alla sinagoga di Giovanni Paolo II... Ecco, il lutto è l'occasione propizia per mostrare ai fedeli che nella Chiesa certamente c'è confronto, ma al di sopra di tutto prevale l'unità. Abbiamo così poche voci profetiche, le istituzioni civili sono in crisi... Occorre un gesto simbolico, che non passa necessariamente attraverso la presenza di Benedetto XVI ai funerali. Non è morto solo un cardinale, è morto un profeta”, insiste De Bortoli. “Noto con rammarico una certa freddezza da parte di certi ambienti ecclesiastici. Che messaggio si dà alla società?”.
A De Bortoli si deve l'intuizione di aver riaperto un dialogo diretto fra Martini, una volta tornato da Gerusalemme, e la gente comune, attraverso le pagine del Corriere della Sera. “Ebbi modo di conoscerlo personalmente già durante la mia prima direzione. Poi andai a trovarlo a Gerusalemme. Fu lui stesso ad aprirmi, mi fece accomodare in una stanza semibuia, mi parlò delle divisioni fra cattolici ed ebrei e fra i cristiani locali. Gerusalemme era l'amata città della sua vita, ma la mia impressione fu che lo avesse accolto con freddezza. Alla partenza dall'aeroporto di Fiumicino, fu interrogato dal funzionario israeliano: “Che mestiere fa?”. “Il cardinale”, rispose Martini. “Dove?”. “A Milano”. “Chi può testimoniarlo?”, incalzò quello. Rircordò di aver cenato con l'ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, che risolse la situazione”.
Sorprese, e al tempo stesso affascinò, nella parte finale dell'esistenza dell'arcivescovo, l'umiltà con cui diede voce alle sue paure, ai suoi dubbi. “A volte i dubbi vengono considerati una forma di relativismo etico o di indifferenza, ma io in lui non trovai affatto questo”, dice De Bortoli. “Molti di noi ricordano esempi di sacerdoti che sostituivano la figura paterna, sacerdoti che integravano il lavoro dei maestri: erano uomini di grande umiltà, forse non dotati di un'istruzione eccelsa, ma sempre pronti a sedersi accanto ai fedeli, condividendone paure e incertezze. Il che non significa indebolire la fede, ma, al contrario, rafforzarne l'identità. Allora perché il cardinale Martini fu visto come una figura quasi eccentrica, eretica persino, più vicina al protestantesimo? Fu, invece, un felice incrocio fra un grande biblista e teologo e un parroco che sta accanto alla gente, portatore non solo di verità dogmatiche, impegnato senza sosta a portare il Vangelo nel contesto in cui viveva”.
L'editoriale che il direttore ha firmato all'indomani della morte dell'arcivescovo si chiudeva con un auspicio: che il Papa prendesse parte ai funerali, come segno dell'unità della Chiesa. “Era solo un auspicio, col quale intendevo segnalare una grande opportunità”, precisa De Bortoli. “La Chiesa ha vissuto la sua corsa verso la modernità attraverso alcuni gesti simbolici di grande efficacia: la visita ai carcerati di Giovanni XXIII, il “non abbiate paura” o la visita alla sinagoga di Giovanni Paolo II... Ecco, il lutto è l'occasione propizia per mostrare ai fedeli che nella Chiesa certamente c'è confronto, ma al di sopra di tutto prevale l'unità. Abbiamo così poche voci profetiche, le istituzioni civili sono in crisi... Occorre un gesto simbolico, che non passa necessariamente attraverso la presenza di Benedetto XVI ai funerali. Non è morto solo un cardinale, è morto un profeta”, insiste De Bortoli. “Noto con rammarico una certa freddezza da parte di certi ambienti ecclesiastici. Che messaggio si dà alla società?”.
A De Bortoli si deve l'intuizione di aver riaperto un dialogo diretto fra Martini, una volta tornato da Gerusalemme, e la gente comune, attraverso le pagine del Corriere della Sera. “Ebbi modo di conoscerlo personalmente già durante la mia prima direzione. Poi andai a trovarlo a Gerusalemme. Fu lui stesso ad aprirmi, mi fece accomodare in una stanza semibuia, mi parlò delle divisioni fra cattolici ed ebrei e fra i cristiani locali. Gerusalemme era l'amata città della sua vita, ma la mia impressione fu che lo avesse accolto con freddezza. Alla partenza dall'aeroporto di Fiumicino, fu interrogato dal funzionario israeliano: “Che mestiere fa?”. “Il cardinale”, rispose Martini. “Dove?”. “A Milano”. “Chi può testimoniarlo?”, incalzò quello. Rircordò di aver cenato con l'ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, che risolse la situazione”.


