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«Viviamo bene i tempi e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi». Ho molto riflettuto sulla citazione di sant’Agostino, rilanciata da papa Leone XIV nel suo primo incontro con la stampa.
Troppo arduo discettare sul concetto filosofico e teologico di tempo: per il vescovo di Ippona, il più moderno dei teologi antichi, il tempo non esiste in sé, non è eterno perché solo Dio è eterno, esiste nell’animo umano come memoria, come attenzione e come attesa, passato, presente e futuro.
E noi, come diceva Gandalf al piccolo Frodo sgomento dei tempi bui in cui si era costretti a vivere, «possiamo solo decidere cosa fare nel tempo che ci è dato».
È fruttuoso cogliere la portata di questo pensiero nel quotidiano. Viviamo bene il giorno, e il giorno sarà buono, potremmo tradurre. E si vive bene se si ringrazia, cioè se si riconosce una positività, per noi, nella vita, nelle occasioni, negli incontri.
Non è un ottimismo volontaristico che possiamo assumere come sforzo o buona intenzione. Ma è un atteggiamento la gratitudine, per essere qui e ora innanzitutto, e per tutto ciò che di buono e bello e caro tocca anche incidentalmente la nostra persona. Volti, sorrisi, parole, cielo, pensieri.
C’è sempre almeno un motivo, pur in situazioni soffocanti o oscure, per dire grazie. E una catena di grazie abitua ad altre grazie, cambia la nostra postura, la nostra tensione al destino, la convivenza con gli altri.
La gratitudine è oggi un valore poco frequentato per la nostra cultura: domina l’egocentrismo e quindi la lamentela, a prescindere. Perché la mancanza è carattere dell’umanità e anziché diventare coscienza, cioè sprone, cioè domanda di pienezza, schiaccia e deprime.
Ci lamentiamo sempre, per tutto e di tutti, e pare dolce il lamento, pare consolare la pena, sfogare le amarezze. E invece rode e corrode poco a poco e ci rende sempre più odiosi e cinici.
Tanto tempo fa, in un popolo naturaliter christianus, pur con tutte le sue pecche e peccati, era usuale nell’esame di coscienza serale il ringraziamento, insieme alla contrizione per i propri errori. Com’era usuale ringraziare al Magnificat dei Vespri o prima dei pasti per il cibo faticosamente procurato col lavoro.
Non era né più semplice né più facile la vita, era diverso lo sguardo. E la partecipazione all’Eucaristia era scuola di ringraziamento. Però continua a esserlo, dobbiamo ricordarlo.
Siamo disabituati alla gratitudine, a mio parere, perché abbiamo perso la consapevolezza della grazia: di essere fatti e fatti cristiani, amati e salvati, nonostante tutti i nonostante del vivere.
Bisogna chiedere la grazia di saper ringraziare, perché è certo, ogni mattina, che ci sarà un buon motivo per farlo. Bisogna rieducare i nostri bambini a dire grazie, reimparare a donare e ricevere la gratitudine senza schermirsi con imbarazzo, per superficiale e non sempre vera umiltà.
Ringraziare fa bene al cuore. E, ci dice la moderna psicologia, alla salute del corpo, oltreché dell’anima: aumenta i livelli di serotonina, gratifica. Ed è appunto un rimedio gratis.
(foto in alto: iStock)
In collaborazione con Credere
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