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La natura, Melissa Magnani, la porta con sé fin dal nome. “Melissa” è infatti una parola greca che significa “ape” ed è pure il nome di una pianta officinale. Ma non solo. «Questo nome era inciso sulla copertina di un libro regalato dal mio nonno materno, che non ho mai conosciuto, a mia madre», ci spiega la giovane scrittrice. «E così nel mio nome ci sono i libri e la natura». Concittadina di Ligabue e di Pier Vittorio Tondelli, Melissa Magnani è molto legata a Correggio e alla Pianura padana. «Sono cresciuta in una grande casa di campagna, ricordo i cavalli che correvano, le mie gambe di bambina tra le ortiche, le api, le persone che si ritrovavano sempre all’esterno, nei campi. Amo questa pianura e ho allenato il mio occhio a vederne solo la sua parte naturale».
Quest’anno hai esordito con il tuo primo romanzo (Teodoro, Bompiani), ma già alcuni anni fa avevi firmato un reportage su eremiti e pensatori solitari. Cosa ti hanno insegnato?
«Incontrandoli ho compreso come nel silenzio le parole diventano più sacre, più calde e dense di significato. Nel silenzio le parole diventano chiavi di accesso per una dimensione più profonda e più significativa. Quando poi ho scritto il mio primo romanzo, ho sentito forte il desiderio di purificare il racconto dal superfluo e di concentrarmi sulle parole essenziali. Mi sembrava la strada più vera per raccontare la sacralità dei legami familiari».
A proposito di famiglia: fin dall’infanzia sei stata circondata dai racconti...
«Come tutte le famiglie numerose, vi sono varie personalità e altrettanti linguaggi. Dalla famiglia di mio padre ho appreso a osservare il linguaggio degli alberi e degli animali. Dalla famiglia di mia madre ho imparato le ninna nanne e le preghiere tramandateci dalle sue antenate e giunte fino a me. Vivo così la fortissima sensazione che gli assenti siano presenti e vicini, anche se non li ho mai conosciuti. Sentire forte la presenza di chi è invisibile è qualcosa che ha ispirato molto la mia scrittura».
Nel racconto che hai firmato per Credere affronti la storia di una santa ben nota, senza mai citarne il nome. E molti lettori capiranno di chi si parla solo alla fine, quasi un colpo di scena. Perché questa scelta?
«Il fascino che provo verso le vite dei santi sta nei dettagli, talvolta poco conosciuti, che da un lato li avvicinano alla nostra vita quotidiana, ma dall’altra aprono strade incomprensibili verso il meraviglioso. Sono racconti pieni di piccoli gesti che collegano il cielo alla terra, il visibile all’invisibile, il finito all’infinito. Dettagli d’invenzione o della realtà? Ma è poi importante? Le vite dei santi sono molto simili a poesie... a tratti sono enigmatiche, ma ci stimolano a guardare il mondo con occhi diversi. Inoltre le vite dei santi si intrecciano con le vite di chi le legge, e ogni generazione aggiunge nuovi dettagli alla storia, quasi che un santo acquistasse un volto nuovo nel momento in cui si trova vicino alla persona che lo guarda. Questo scambio di sguardi continuo si arricchisce di generazione in generazione. E così non si sa mai se ogni dettaglio è più vicino alla biografia del santo o a quella di chi la racconta».
La tua scrittura attinge molto ai simboli naturali. Pensi vadano utilizzati di più per raccontare la fede?
«Forse c’è bisogno di tornare a un alfabeto originario e più puro, un alfabeto della realtà. Nello scrivere questo racconto cercavo parole che non fossero astratte. Le parole più semplici — anche quelle più radicate nella terra — possono raccontare un Altrove. Non occorre necessariamente ricorrere a parole astratte o filosofiche, perché c’è moltissima filosofia anche in una parola come “fiore” o “notte”. Le parole più semplici hanno un rintocco e riverberano in noi. Penso all’espressione “rugiada del Tuo Spirito”, inserita nella liturgia dal nuovo Messale: è qualcosa che si può toccare, ma che al tempo stesso apre le porte all’invisibile».
Questo, dopotutto, è il linguaggio della Bibbia: dalla Genesi al Cantico dei Cantici, fino ai Vangeli...
«Quando parlo di “terra” penso proprio al soffio della vita che viene da Dio e si va a posare su tutto ciò che è intorno a noi. Ciò significa che in ogni elemento è racchiuso un segreto che ci parla di un Mistero più grande, che io chiamo “Dio”. Penso a Cristo in mezzo agli ulivi: la sacralità del paesaggio ci invita ad alzare lo sguardo verso il cielo o a rivolgerlo verso il nostro intimo, per ritrovare nel nostro respiro il soffio di Dio sulla polvere della creazione».
Il Dio creatore è la persona della Trinità che forse conosciamo meno, e al tempo stesso quella che più ci affratella con i fedeli di altre religioni. Credi vada riscoperto?
«Penso che in ogni cosa vi sia, più che la Sua orma, la Sua carezza, che si può sentire ancora adesso sulla pelle. Dio viene nominato per lo più con timore — “Non nominare il nome di Dio invano!”, recita il comandamento — ma forse dobbiamo riscoprire la bellezza di chiamarLo “Padre”, e ripetere “Padre nostro”, e sentire questo essere figli, questo appartenerGli. “Dio”, come tutte le parole d’amore, è una parola da dire sottovoce, e al tempo stesso bisogna avere il coraggio di dirla: di non dirla invano, ma di pronunciarne la bellezza».



