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@Vatican Media
«Credo in Dio, Padre onnipotente…. E in Gesù Cristo, suo unico Figlio, … Credo nello Spirito Santo». A recitare queste parole, che tutti i cristiani di ogni latitudine – non solo cattolici, ma anche ortodossi e protestanti – proclamano ogni domenica, sono stati non dei comuni fedeli ma papa Leone XIV e il patriarca ortodosso Bartolomeo, insieme ad altri rappresentanti delle Chiese cristiane, lo scorso 27 novembre, vicino agli scavi dell’antica basilica di San Neofito a Iznik, l’antica Nicea, la città dove nell’anno 325 i vescovi furono riuniti dall’imperatore Costantino e plasmarono la prima professione di fede cristiana.
Un evento che vuole essere una memoria storica – i 1.700 anni di quel Concilio – e che ci ricorda che i cristiani, prima di ogni differenza, sono legati da un comune Credo, da tutti riconosciuto. Questo incontro ecumenico e la recita comune del Credo di un Pontefice romano insieme con il patriarca ecumenico di Costantinopoli – segni di grande speranza nel cammino verso l’unità dei cristiani – non sarebbero stati possibili anche solo 60 anni fa, a causa delle scomuniche reciproche che datavano sin dal Grande scisma tra Oriente e Occidente del 1054.
E questo ci riporta a un altro anniversario e a un altro evento storico, accaduto esattamente 60 anni fa: il concilio Vaticano II, che Pietro Pisarra ci racconta nello Zoom che don Severino Dianich rievoca per Credere (intervista a pag. 37). Fu infatti il Vaticano II a inaugurare ufficialmente la stagione del dialogo ecumenico e del riconoscimento reciproco con le altre Chiese cristiane. Una nuova direzione resa visibile dallo storico abbraccio tra papa Paolo VI e il patriarca ortodosso Atenagora il 5 gennaio 1964: un gesto che apriva la strada alla riconciliazione dopo un millennio di condanne e di ostilità reciproche.
Questi due eventi epocali – Nicea, anno 325, e il concilio Vaticano II, chiusosi l’8 dicembre del 1965 – ci ricordano che la nostra fede ha radici lontane ma ancora vitali, è plasmata da ciò che altri cristiani prima di noi hanno elaborato e ci hanno consegnato. La Chiesa, in altre parole, è determinata da una Tradizione vivente, dalla consegna da una generazione all’altra di una fede che nel tempo si arricchisce, si approfondisce, si riplasma, mantenendo il legame con le origini ma anche aprendosi alle sollecitazioni della storia (i “segni dei tempi”) per imparare a ridire le parole del Vangelo nel nostro oggi.
La Tradizione non è un deposito statico, un cofanetto di verità chiuso in naftalina. Viviamo determinati da una memoria radicata nella Buona notizia di Gesù Cristo, che «nacque da Maria Vergine», ma siamo anche in cammino nella storia. Dobbiamo essere grati per la fede che ci è stata trasmessa, che ci libera, in parte almeno, dallo sforzo di ripensare il cristianesimo da capo ogni volta, avendo dei riferimenti saldi. Ma non dobbiamo temere, d’altra parte, il necessario “aggiornamento”, che ci obbliga a ritrovare le parole per dire la nostra fede, per essere sempre più fedeli a Cristo e al suo Vangelo.





