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Cari amici lettori, mi è capitato di soffermarmi su una lettura dei dati della frequenza religiosa rilevati dall’Istat, effettuata pochi giorni fa da un grande sociologo cattolico, Franco Garelli. Le cifre, che si riferiscono all’anno 2022, certificano quello che, molto empiricamente, constatiamo a colpo d’occhio nelle nostre chiese: un deciso calo della pratica religiosa, in parte dovuto a tendenze di medio e lungo periodo e in parte al “colpo” dato dalla pandemia. Solo per dare un’idea: i “praticanti assidui” sono il 19% della popolazione italiana (erano il 36% nel 2001), i “mai praticanti” sono il 31% (16% nel 2001: praticamente raddoppiati), mentre il restante 50% circa frequenta in modo occasionale o discontinuo.
Ci rendiamo conto che viviamo un tempo che non è più quello di “cristianità” in cui siamo cresciuti, con le sue forme, le sue strutture, i suoi percorsi collaudati (che ormai funzionano poco). Siamo insomma in un «cambiamento d’epoca», come ripete spesso papa Francesco, che ci lascia talvolta disorientati, quando non rassegnati o risentiti per la sensazione di un “mondo che finisce”.
Non voglio entrare in una disquisizione su questo argomento amplissimo, vorrei però interrogarmi con voi, cari amici, su quale atteggiamento o “postura” spirituale adottare rispetto a questo dato di realtà. Frustrazione, risentimento, sfiducia, paura sembrano i sentimenti predominanti. E, se ragioniamo in termini solo di numeri – facendo la “conta” –, non può che essere così (forse). Ma è possibile – e necessario – un altro approccio, suggerito dalla fede in Dio, Signore della storia, e anche da uno sguardo ai secoli passati, in cui vediamo che il cristianesimo di fronte alle tante crisi che ha attraversato ha sempre avuto la flessibilità per “re-inventarsi” ed evolvere. L’approccio cui mi riferisco è quello di abitare questo tempo con sapienza, cogliendo le sue sfide con serenità. Tutti ci interroghiamo e abbiamo inquietudini (che sono sane!): dunque vanno assunte e vissute, senza mettere la “testa nella sabbia”. Tutto può aiutarci a riflettere, a crescere. Interrogarsi seriamente non è cedere allo sconforto, ma imparare a leggere i fatti come “segno” che Dio dà a questo tempo. In questo senso mi pare vadano sia il Sinodo universale che quello della Chiesa italiana. Certo, ci troviamo a metà del guado, e non sappiamo come sarà il “nuovo” che verrà, con la sensazione di incertezza che lo accompagna. È un po’ la situazione della donna nel parto di cui parla Gesù in Giovanni 16,21: al presente c’è il dolore del travaglio ma si prospetta anche la gioia per ciò che nasce. In questa situazione di “penombra” mi sembra fondamentale ancorarci saldamente alle cose essenziali nelle quali trovare gioia e motivazioni, richiamate da papa Francesco nella Messa conclusiva della Gmg: la frequentazione della Parola di Dio e la conoscenza di Gesù come cuore della nostra fede, in un legame personale che ci consente di relazionarci “con simpatia” nei confronti di tutto e tutti, senza cedimenti ma anche senza paure.
(Foto in alto: iStock)



