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In prima nazionale, in una produzione del Teatro Franco Parenti di Milano, torna in teatro una nuova edizione di Un tram che si chiama desiderio, con la regia del trentenne Luigi Siracusa, che cura anche scenografie e costumi, a più di 80 anni dal suo debutto a New York, e messinscene teatrali e cinematografiche, come il celebre film diretto da Elia Kazan, con protagonisti Vivien Leigh e Marlon Brando (1951). Il regista Siracusa concentra il plot tra soli quattro personaggi: Blanche, interpretata con sensibilità ed energia instancabile da Sara Bertelà, è una donna che, dopo una vita segnata da amori sfortunati e drammatici, si trasferisce, prendendo un tram dal nome “desiderio” a casa della sorella Stella, incinta (Silvia Giulia Mendola), e dal possessivo marito Stanley (Stefano Annoni); viene corteggiata da Mitch, amico della coppia (Pietro Micci) che, quando scopre il suo fosco passato amoroso, la lascia, dopo averle illusa con la proposta di sposarla.
In uno spazio angusto, il piccolo appartamento in cui i tre vivono, simbolo del disagio anche psicologico che tormenta Blanche, si svolge tutta la vicenda. Gli attori si scontrano, si inseguono come in un ring, spazio scenico reale, ma anche mentale del conflitto verbale e, a volte, anche fisico, man mano che emergono episodi del passato e stati d’animo contrastanti. Blanche critica la sorella, ritenendola succube di un marito violento e ossessivo, mentre Stella ne critica l’eccessiva leggerezza. Annone, che interpreta Stanley, è abilissimo nel nascondere atteggiamenti e sensazioni, come molti uomini nel mondo contemporaneo, che alternano violenza fisica e psicologica con richieste di perdono e attenzioni amorose, nei confronti della moglie, ma anche verso Blanche di cui si è invaghito.
La Blanche della Bertelà mostra delicatezza nei gesti e nelle parole, ma anche determinazione nella costruzione del personaggio: anima, infatti, un gioco al massacro tra discussioni e flash sul suo passato, crolla un po’ alla volta, alternando registri isterici ad altri sofferenti e di fragilità, che la portano alla disperazione più profonda, ma senza perdere la sua dignità di essere umano. Proprio l’aspetto umano, infatti, del conflitto fra individui è al centro della messinscena del regista, con un messaggio sotteso: anche nella rabbia e nel dolore bisogna conservare la propria identità e non comportarsi come “bestie”, come afferma appunto Blanche che, pur soffrendo, apparendo alla deriva, alla ricerca di qualcosa o qualcuno a cui aggrapparsi, vuole ancora avere fiducia nei suoi simili, non viene travolta dalla violenza. È fragile, ma sogna ancora di potersi innamorare ed essere felice, come ogni donna, nonostante il suo passato scabroso che la segna e la isola, infatti si illude di poter costruire una nuova famiglia con Mitch: la Bertelà mima una danza d'amore con lui recitando nelle scene del corteggiamento, muovendosi sempre a passi di danza: prima delicata poi convulsa, come travolta dall’amore nascente. Anche nell'interazione con gli altri personaggi è sempre in movimento, in fuga, sbattendo le persiane che si aprono e si chiudono verso stanze nascoste agli spettatori o verso l’esterno, cercando di uscire dalla piccola stanza in cui è relegata, mostrando momenti di tenerezza solo per il futuro nipote e per i suoi pochi oggetti che ha portato con sé in un baule che il regista, anche costumista e scenografo, rappresenta in una teca di vetro come un prezioso e delicato cimelio del suo passato. Proprio il contatto ravvicinato infatti voluto dal regista tra i personaggi li porta a scappare da loro stessi e dagli altri in un costante movimento in cui cercano di allontanarsi fra loro, ma non possono, perchè lo spazio d'azione è minimo quindi, non sopportandosi più, alzano la voce, si urlano in faccia per staccarsi ma sono sempre più vicini e arrabbiati. La recitazione, infatti, è sempre sopra le righe per indicare l’astio e l’insoddisfazione continua di ogni personaggio, tutti hanno qualcosa per cui soffrono.
Emergono infatti tematiche delicate e sempre attuali come l’omosessualità, la violenza domestica, il disagio mentale, i rapporti familiari claustrofobici, gli amori intergenerazionali. Ma dalle persiane, unici elementi scenici presenti, entrano, a tratti, spiragli di luce, per illuminare la tormentata e cupa vicenda.


Dove e quando
UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO di Tennessee Williams. Traduzione di Paolo Bertinetti. Regia, scene e costumi di Luigi Siracusa. Con Sara Bertelà e con Stefano Annoni, Silvia Giulia Mendola, Pietro Micci. Luci di Pasquale Mari. Musiche di Laurence Mazzoni. Produzione Teatro Franco Parenti di Milano. Fino al 7 dicembre, Teatro Franco Parenti, sala blu, Via Pier Lombardo 14, Milano, info: 02.59995206



