Devi incontrare Juliette Binoche e temi che possa corrispondere allo stereotipo della diva francese snob, capace solo di smozzicare qualche frase preconfezionata. Invece lei arriva e, parafrasando il suo personaggio di Chocolat, in perfetto italiano esclama: «Il cioccolato nero è buono per il corpo e per lo spirito!». Poi, per il resto dell’incontro, ti travolge con le sue improvvise risate. Solo su un punto è conforme alle aspettative: è bellissima, con un filo di trucco e con l’unico vezzo di un foulard rosso. Quest’anno l’attrice ha compiuto 50 anni. «Se si vive pienamente la propria vita, non ha senso rimpiangere ciò che è stato. Quando ti rendi conto che non puoi controllare il tempo che passa, diventi libero e la libertà crea l’eternità ». L'abbiamo incontrata al Festival di Locarno, dove oltre a ricevere un premio, ha presentato il film Clouds of Sils Maria, nelle sale da noi in autunno. È l’attrice più premiata della storia del cinema francese e non solo, avendo vinto un Oscar e riconoscimenti a Cannes, Venezia e Berlino. Abbas Kiarostami, il grande regista iraniano con cui ha girato Copia conforme, dichiarò di essere stato molto felice di dirigerla perché non era stata un’attrice, ma un essere umano vero, come i bambini protagonisti dei suoi primi film. «È un bellissimo complimento. Recitare significa abbandonarsi totalmente: è come un salto nel vuoto e ogni volta bisogna ritrovare la vertigine. Noi attori siamo come medici dell’animo, perché diamo la possibilità alle persone di conoscersi più a fondo. I miei modelli? Anna Magnani, Liv Ullmann e Gena Rowlands: sono un triangolo perfetto. Con le altre non c’è gara».

Sono passati 21 anni da Film Blu, il primo della Trilogia dei colori di Kristof Kieslowski che consacrò il talento della Binoche. In quell’opera era una donna che doveva fare i conti con la morte del marito e della figlioletta. Un film complesso, con una forte tensione etica, nel solco delle altre opere del regista del Decalogo. Eppure Juliette ricorda che durante la lavorazione lei e Kieslowski si fecero delle grandi risate. «Parlavamo di Dio, del senso dell’esistenza, ma con leggerezza. Lui, nonostante la fede, era molto pessimista e io mi divertivo a prenderlo in giro perché al contrario avevo e ho conservato tuttora una visione gioiosa della vita»

Nel 1997, vince l’Oscar come miglior attrice non protagonista nel film di Anthony Minghella Il paziente inglese. Da allora la sua carriera continua a oscillare tra l’Europa e Hollywood, tra film d’autore e kolossal come Godzilla.  «A Hollywood i troppi soldi che girano creano negli attori una pressione che qui in Europa non c’è: ma mi sono adattata. Così come sono riuscita a conciliare il ruolo di attrice con quello di madre di due figli. Mi hanno seguito ovunque. Ma non ho mai pensato di trasferirmi stabilmente negli Stati Uniti». Non le va giù un certo tipo di cultura americana. «Qualche giorno fa ho avuto una discussione con mia figlia a proposito di un telefilm che stava guardando. Le ho chiesto: “Ma non vedi come recitano male?”. E lei: “Sì, ma a me interessa la storia”. È questo che mi preoccupa di più: molte serie Tv propongono dei comportamenti stereotipati che però rischiano di essere presi a modello da chi le guarda». Quindi non parteciperà mai a una serie americana? «Non posso escluderlo a priori: dipende sempre dal progetto. Per me è fondamentale non ripetermi, trovare nuove sfide. Solo così la magia può rinnovarsi».

È lo stesso spirito che l’ha portata, a 43 anni, a studiare danza contemporanea per uno spettacolo, In-I, che ha rappresentato in tutto il mondo. In più è un’appassionata pittrice. «Per me non c’è differenza tra le arti. Dipingere, danzare, recitare: si tratta sempre di un movimento dalla propria interiorità all’esterno, di emozioni insomma». Quest’esigenza di rinnovarsi l’ha spinta a rifiutare ruoli che le sembravano ricalcassero troppo altri che aveva già interpretato. Come quello della protagonista che le offrì nel 2000 Nanni Moretti per La stanza del figlio: troppo simile a quello di Film Blu. Eppure in queste settimane si ritrova di nuovo a interpretare una madre alle prese con la scomparsa del figlio, sul set siciliano di L’attesa, primo lungometraggio di Piero Messina. «Ho accettato perché il copione è davvero originale, anche se è un lavoro molto faticoso, dato che giriamo quasi sempre di notte». Le chiediamo se è riuscita a imparare qualche parola in dialetto siciliano. Ultima risata: «Con il mio accento francese, è troppo difficile...».