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Tra i produttori del film Il tempo che ci vuole della regista Francesca Comencini c'è anche Marco Bellocchio. Che ha scelto la sua pagina Instagram per un commento molto intimo e sofferto, ma anche pieno di speranza nella capacità ha del cinema di rendere forti e condivisibili storie che portano con sé messaggi positivi proprio perché autentici. il film ricostruisce il rapporto che Francesca ha avuto con il padre, il grande regista Luigi Comencini. Le quattro figlie tutte a diverso titolo hanno raccolto l’eredità del padre e si sono dedicate al mondo dello spettacolo. Francesca era la più piccola, la più inquieta. Dopo i ricordi dell'infanzia, di quel padre già avanti con gli anni che gli leggeva i libri, che la accompagnava a scuola e che la coinvolgeva nei suoi film, la parte più significativa di Il tempo che ci vuole è dedicata a quando, adolescente, forse anche resa fragile dal confronto con il successo del padre (nel film le sorelle sono assenti, così come la madre, il focus è volutamente su loro due, come se intorno a loro ci fosse il vuoto) ha cominciato a drogarsi. Era l’epoca dell'eroina, che mieteva molte vittime tra giovani di ogni estrazione sociale. E fu proprio il padre a salvarla, fermando davvero il tempo intorno a loro, e portandola a Parigi, per star con lei fino a quando non si fosse disintossicata e avesse ritrovato un senso alla propria esistenza. Marco Bellocchio ha conosciuto un dolore simile, altrettanto viscerale: il suicidio del suo fratello gemello Massimo, che si impiccò il 26 dicembre 1968 a 29 anni. Ecco quanto ha scritto:


Il post di Marco Bellocchio
In queste settimane seguendo da lontano per ragioni di lavoro il film di Francesca Comencini Il tempo che ci vuole (che invece avevo seguito molto da vicino in tutte le sue fasi di lavorazione) ho capito perché l’ho amato così profondamente. Un altro perché.
Perché “Il tempo che ci vuole” dà una risposta, a me personalmente, che nella mia vita non ho saputo dare. Nel film di Francesca il padre sa rispondere alla figlia mentre io non ho saputo rispondere a mio fratello gemello. E così la figlia si salva, mio fratello si uccide. È terribilmente semplice. Il padre, pur malato, si è opposto alla figlia che voleva uccidersi amandola, agendo nei fatti. Io non ho agito, non sono intervenuto per una mancanza di amore (con tutte le scusanti, questo ora non mi interessa). Perciò la geniale tragica risposta di mio fratello: “Marx può aspettare”. Il padre ha resistito all’odio della figlia, non l’ha affidata a una comunità, non l’ha fatta rinchiudere, non ha pagato uno psichiatra, le ha detto semplicemente: stai con me, non ti mollo più neanche un istante. E la figlia di fronte a una determinazione così affettuosa e severa (e priva di qualsiasi teatralità) si arrende e si salva. È un movimento raro senza ragionamenti che Francesca Comencini ha saputo rappresentare con originalità.
Ho visto tanti film nella mia lunga vita col lieto fine (nella mia giovinezza il lieto fine era sinonimo di falsità, di retorica. Una forma di propaganda di chi comandava. Il film doveva finire bene. La speranza, la positività ecc. ecc.). E Il tempo che ci vuole finisce bene ma è vero, è bello, non ha nessuna retorica. Ed è (miracolosamente?) positivo. Riabilita, ma non è il solo film che lo fa, il “buon messaggio”.
MB



