Nei giorni scorsi ha fatto il giro del mondo la notizia di Lina Heider, 12 anni, entrata alla Facoltà di economia di Bonn, dopo avere bruciato le tappe dell’istruzione. La sua storia è iniziata come quella di tanti bambini che poi vengono riconosciuti come plusdotati: con i genitori che si sono accorti presto di capacità intellettive molto precoci. Lina a un anno apprezzava storie con testi lunghi, a due sapeva contare fino a dieci: potenzialità che sono state assecondate al punto da portarla a conseguire la maturità appena undicenne, con un percorso scolastico fatto di anticipi e di classi saltate.

Ma è giusto? Lo abbiamo chiesto alla professoressa Maria Assunta Zanetti, associata di Psicologia dello sviluppo, che all’Università di Pavia dirige il Lab-Talento (Laboratorio italiano di ricerca e sviluppo del potenziale, talento e plusdotazione), punto di riferimento a livello nazionale per la ricerca e la gestione della plusdotatozione, ossia la caratteristica dei bambini con quoziente intellettivo elevato. 

«È probabile», spiega la professoressa Zanetti, che, «nell’immediato, un contesto formativo universitario appaghi questa ragazzina che vi troverà soddisfazione riguardo all’aspetto cognitivo, ma mi omando: che cosa comporta, per una preadolescente, confrontarsi con colleghi che sono giovani adulti, qual è l'aspetto emotivo e il carico psicologico che deve imparare a gestire? L’appagamento cognitivo non è tutto, l'altra faccia della medaglia è un precorrere i tempi di crescita a una velocità che sotto il profilo psicologico chiede troppo».

Come rispondete nel vostro lavoro a un genitore tentato di assecondare il desiderio dei figli plusdotati di correre intellettualmente?

«Tendiamo a frenare: spesso questi ragazzi hanno la difficoltà di far combaciare la maturità intellettuale, che è avanti a volte molto avanti, con quella emotiva, che è allo stesso livello dei coetanei a volta anche un poco più indietro, c’è proprio un’asincronia dello sviluppo. Quello che noi facciamo è tenere insieme, alla ricerca di un equilibrio bilanciato, la dimensione cognitiva e la dimensione emotiva, questo non vuol dire che dobbiamo riportare indietro il cognitivo, ma che non possiamo neanche favorire un allargamento ulteriore della distanza tra il cognitivo e l'emotivo».

Possiamo spiegarlo con l’esempio di Lina?

«Questa ragazzina deve confrontarsi in un contesto di universitari che hanno 8 e 10 anni più di lei. Questa distanza temporale richiede che lei precorra alcune tappe dello sviluppo emotivo. Significa, per rispettare le richieste dell’università, rischiare di bruciare la sua adolescenza. Ci sono dei tempi di crescita che dovrebbero essere più accompagnati. Mi domando dove porti questa fretta di anticipare. Per arrivare dove? A prendere un titolo di studio che le consentirà di entrare prima nel mondo del lavoro? Perché tutta questa esigenza e questa frenesia nell'anticipare delle tappe di sviluppo? Forse dobbiamo recuperare un po' anche, non dico la lentezza, tempi più consoni con i tempi di vita. Siamo accelerati su tutto, abbiamo un mondo che ci spinge a livello di prestazione al tutto e subito, ma questo ha costi psicologici emotivi importanti: il rischio è non solo che questa ragazza si senta vecchia a trent’anni, ma che questo accada al prezzo di una infinita solitudine. Noi, quando ci troviamo di fronte bambini con quozienti intellettivi molto alti che hanno una sete infinita di conoscenza, cerchiamo anche di trasmettere loro l’importanza di prendersi momenti di tregua, di muoversi per dare anche al fisico il modo di incanalare anche altrove la loro energia, perché diversamente il cervello non ha mai una pausa e questo ha un costo».