Sento spesso parlare di “castità” e “continenza” come sinonimi. Il nuovo documento Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale parla di «castità continente». Mi pare una ridondanza. Potrei avere qualche chiarimento? - CARLA

 

Continenza e castità non sono propriamente sinonimi. La continenza è la capacità di moderare gli istinti, i desideri, i piaceri… per non diventarne schiavi. Tradizionalmente è il grado iniziale e imperfetto della virtù della temperanza. Non è necessariamente legata alla sfera sessuale; può riguardare anche il cibo, ad esempio. Pensiamo ai vizi capitali: la continenza/temperanza ci permette di vivere la sessualità senza cadere nella lussuria, di mangiare senza cadere nella gola, di gestire i beni materiali senza cadere nell’avarizia…

La castità è la continenza sessuale vissuta e integrata all’interno di un progetto di vita. Ovvero: è quel percorso, mai concluso, cui ciascuno è chiamato, di integrazione della propria sessualità in relazione alla propria vocazione. Non è un momento puntuale come potrebbe essere la continenza, ma uno stile, un orizzonte di comprensione. Il fine della castità non è essa stessa, ma l’umanizzazione di sé e delle relazioni.

Non stupisce, in tale ottica, sentire parlare sia di castità collegata a un “voto” o a una “promessa” in relazione a chi sceglie una vita celibe, sia di castità coniugale in relazione agli sposi. I fidanzati, gli sposi, i sacerdoti, i religiosi e anche i single sono in cammino, ogni giorno, in questo percorso di integrazione umana.

La castità ci ricorda alcuni elementi essenziali della nostra umanità. Il primo: il corpo. Non possediamo il nostro corpo come altri oggetti, senza dei quali (magari a fatica) potremmo comunque vivere. Noi non solo abbiamo, ma siamo anche il nostro corpo. Condividere il corpo non è come condividere oggetti. La castità è l’arte di non considerare mai sé stessi o l’altro come oggetti. Il secondo: il tempo. La castità è una dinamica; non è mai conclusa, raggiunta definitivamente. Insegna a riconoscere e rispettare i tempi biologici, cronologici, di conoscenza, di consapevolezza eccetera della persona e della coppia. La castità è l’arte dell’ascolto delle pieghe della storia e dei volti in essa coinvolti. Il terzo: il desiderio. Esso indica qualcosa che manca, è forza propulsiva nell’esistenza umana. Denuncia la nostra non autosufficienza, il nostro carattere radicalmente relazionale. I desideri vanno epurati e coltivati, distinti dal bisogno. La castità è l’arte di costruire un ponte tra il desiderio erotico (eros) e la tenerezza (philia) per raggiungere l’amore (agape). Il quarto: l’intimità. L’intimità, per i credenti, è offerta, oltre che di ricchi spazi umani, di un “luogo teologico”, in cui si sperimenta la presenza di Dio. Basti pensare alle celebri parole di Agostino: «Interior intimo meo». Non una genitalità superficiale, ma una sessualità vissuta in castità può essere davvero luogo teologico. La castità è l’arte di toccare il corpo per toccare l’anima. E per conoscere Dio. Il richiamo per i fidanzati, contenuto negli Itinerari, di una «castità vissuta nella continenza» (tre volte al n. 57) non è ridondante, né sterile appello all’astinenza disprezzante. Al contrario: è un richiamo alla bellezza, potenza, ricchezza della sessualità, nel suo armonioso e graduale dispiegamento.