Caro don Stefano, mentre pensa vo tra me e me alla fatica mia e di mio marito ho deciso di scriverle pensando alla frase che mi riporta alla morte di Cristo, rinnegato come il “peggiore dei - - reietti”. Sono mamma di un ragazzo di 16 anni che all’età di 14 anni ha manifestato improvvisamente i disturbi di una malattia mentale in divenire. Abbiamo attraversato in questi due anni fatiche e dolori che solo chi è stato destinato a cammini su sentieri impervi può comprendere. È un dolore che lacera nel profondo quello della malattia mentale e toglie il fiato quando accompagna notti insonni che si susseguono a vegliare i pensieri folli di un figlio che si perde a seguire voci per noi incomprensibili. Il dolore più profondo, però, giunge dalla distanza che le persone prendono da noi o da nostro figlio, amici perduti che sembravano sinceri fino a quando, spaventati, hanno chiuso le loro porte con la scusa di attendere che la malattia migliori. Altri, invece, nonostante parlino di inclusione all’handicap, hanno dimenticato di definire che anche questo deve avere dei criteri che sembrano non corrispondere a quello del disturbo mentale.
Come dire: quella è una disabilità illogica... Stasera ho capito cosa voleva dire “il peggiore dei reietti”, perché in un certo senso ci sentiamo così. E allora mi viene da pensare che in questa Pasqua vorrei che la paura risorgesse con Cristo e nascessero nuovi pensieri rivolti a tutte le persone affette da disturbi mentali e alle loro famiglie, che raccontano una solitudine che solo chi è giudicato ultimo può comprendere e magari con presunzione pensare che si avvicini a quella di Cristo nel Getsemani. Lui stesso abbandonato per paura. Una mamma
Cara Mamma, ai tuoi desideri e auspici per questa Pasqua vorrei unire il mio. E quale miglio re augurio che i “reietti”, come li chiami tu, della nostra società ne diventino alla fine davvero parte- - integrante (e non solo sulla carta o nei pii desideri)? Dopo il cammino dei 40 giorni della Quaresima, in cui le letture nella liturgia ci hanno aiutato a saper riconoscere il Signore, dovremmo aver capito – o almeno semplicemente avere qualche strumento in più – per riconoscerlo lì dove ha sempre detto di essere: nel nostro prossimo, specie se più fragile e indigente. In una logica illogica per questo mondo crediamo che proprio Lui, il Cristo della croce, ami nascondersi proprio nei più reietti per dare a tutti noi l’opportunità di amarlo, accoglierlo, soccorrerlo. Non ci sono più scuse, Gesù è ormai visibile in loro. In tutti loro. Il capitolo 25 del Vangelo di Matteo è lì a insegnarcelo. Ora tocca a noi.
Non sono genitore ma sono stato alla scuola di due genitori di un bambino fragile. So quanto possa essere difficile vivere i momenti di solitudine e isolamento e quanto la paura possa essere paralizzante. Ma è proprio in questi momenti che bisogna sfoderare il coraggio intrinseco nella vocazione genitoriale. La società odierna e una cultura buonista solo a parole ci ha resi tutti molto fragili; tanti si definiscono “sensibili”, incapaci quindi di stare accanto a un dolore. «Non saprei cosa dire», «sarei imbarazzato» sono le scuse. Abbiamo introdotto belle parole nel nostro vocabolario: inclusione, welfare… ne abbiamo rispolverate altre di antiche: empatia, re- che ci viene da tolstoj silienza…; e ne abbiamo sostituite altre: “diversamente abili” per “handicappati”, “di colore” per “neri”… Ma se non cambiano rotta i nostri cuori e il nostro senso di responsabilità verso l’altro le parole potranno fare ben poco.
L’anestesia generale al dolore a cui ormai da anni ci sottoponiamo ci ha addormentati. Come ai tempi della pandemia, quando, nei giorni in cui cadevano a migliaia nel sonno della morte e il nostro eroico personale sanitario si prodigava a mani nude contro un nemico invisibile, continuavamo a dirci un falso e anestetizzante «andrà tutto bene». Tutto bene proprio non è andato. Vivere nella bugia, che ci impedisce di accettare e condividere il percorso di chi è nella fatica, non ci salva mai. Attraversando il dolore di vostro figlio anche voi sarete profondamente cambiati. E forse quegli amici che sono scappati in realtà oggi andrebbero stretti anche a voi. È dura, ma sento di consigliarvi di non chiudervi nel vostro dolore. Non tacete i vostri bisogni, chiedete aiuto, non vergognatevi mai delle fragilità vostre e di vostro figlio, non permettete ad alcuno di mettervi in un angolo, non vi incattivite…
Condividete, aprite le porte al nuovo e lasciatelo entrare. Affinate i sensi, ascoltate… nessun dolore è mai fine a sé stesso. Permettete a questa ferita di trovare la sua luce, sarete più forti. Dio non ci lascia mai soli, ci cammina accanto – come fanno una madre e un padre con i loro figli –, soprattutto quando è difficile capire cosa voglia da noi. Voglio pensare che l’esperienza di amore intorno a vostro figlio vi abbia elevati, abbia stravolto le vostre priorità, vi abbia costretto a decentrarvi e a uscire da voi stessi per mettere al centro lui (e quel Cristo in croce che è in lui). Quanta fatica, ma allo stesso tempo quanta bellezza! Vedrai che con il tempo nuove amicizie si affacceranno nella vostra vita, amicizie coraggiose, amicizie di persone che hanno riconosciuto il Cristo e vogliono servirlo – nei mille modi in cui si può umanamente farlo – in vostro figlio assieme a voi. È questo il migliore augurio che posso farvi per questa Pasqua


