Caro don Stefano, sono rimasta un po’ sorpresa e rattristata del video di don Alberto Ravagnani, il popolare influencer, che, oltre a parlare di cura del corpo, esibendo un’invidiabile forma fisica (e fin qui niente da ridire), pubblicizza sui social un noto integratore. Non mi aspetterei una pubblicità da un prete.

E improbabile mi è parsa la sua autodifesa, in cui mostra un cantiere di restauro di una chiesa di Milano sormontato da un grande cartellone pubblicitario. Se la Chiesa fa diverse attività per raccogliere fondi a fini di bene, anche il suo “spot” si giustificherebbe per sostenere le sue attività di comunicatore professionale, che hanno dei costi. Così argomenta.

Mi chiedo però: fin dove è lecito spingersi? Lo chiedo in relazione alla sua vicenda, ma anche alla Chiesa. MARIELLA

Cara Mariella

Una piccola premessa per chi non conosce don Alberto Ravagnani, 32enne sacerdote milanese, un pozzo senza fine di idee e attività pastorali indirizzate ai giovani. Giovani che frequenta molto e che conosce bene, grazie soprattutto al suo attivismo sui social, la vera piazza di questo scorcio di secolo dove incontrare gente. Molta gente. Praticamente tutti. Soprattutto i ragazzi, quelli fuori dal recinto della Chiesa, che spesso hanno pregiudizi su di lei e sui preti. E che, ancora più spesso, sono indifferenti alla religione.

Lui nel 2020, allo scoppio del Covid, chiuso in casa come tutti, si lancia quasi per caso a fare video per raggiungere i “suoi” ragazzi della parrocchia di Busto Arsizio (Varese). Parla di Dio, di Gesù, della preghiera, di argomenti teologici, della Chiesa. Affronta, usando linguaggi e modalità espressive tipiche dei social (brevi, veloci, con frequenti e rapidi cambi di campo, scenografie diverse), quelle domande di senso che rimangono spesso confinate nella solitudine di tanti cuori.

Affronta temi di morale, scomodi, come la masturbazione, o di tipo sociale, come la povertà. Il successo è subito enorme, ben oltre il confine della sua parrocchia. Molti altri preti nello stesso periodo (e anche dopo), presi dal medesimo spirito missionario, si lanciano nelle piattaforme social. Ma lui li supera tutti e conta, oggi, numeri incredibili: 270 mila followers su Instagram, 130 mila su TikTok.

Su Instagram si definisce «prete, Youtuber e molto altro». Non lavora, infatti, solo sui social, ma riunisce anche intorno a sé una fraternità di ragazzi in ricerca vocazionale e con loro organizza molti eventi, dove vengono tanti giovani. Eventi in cui si prega, si canta, si ascoltano le sue catechesi.

E qui veniamo al punto: per fare questo ha bisogno di soldi per pagare tecnici, luci, palchi, affitto dei luoghi. Qualche giorno fa si inventa, allora, di sponsorizzare un integratore alimentare per (garantisce lui) stare meglio nel corpo (don Alberto è molto sportivo), cosa che aiuta anche l’anima.

Scoppia la polemica: nel video dove commette il “fattaccio” (oltre 1.700 commenti) c’è chi si schiera a favore e chi contro. Il diritto canonico vieta attività commerciali dirette ai sacerdoti; lui si difende che non è peccato, che anche i parroci chiedono soldi agli sponsor per le feste patronali e lasciano appendere teloni pubblicitari sulle chiese per finanziare i loro restauri. Probabile che la curia milanese si sia fatta sentire. Nel frattempo comincia anche a girare video in maglietta, senza il clergyman.

Credo, e vengo al punto, che c’è un aspetto che non può essere cancellato dall’esigenza di raccogliere denaro per fini buoni: il sacerdote è “testimonial” solo di Gesù Cristo, non può esserlo di prodotti commerciali, confondendo agli occhi dei ragazzi il suo ruolo (e la sua credibilità, conquistata con grande capacità) con quella di uomini e donne pubblici, che offrono la loro immagine, a pagamento, per fare réclame di prodotti.

Non è ipocrisia distinguere i casi, è semplicemente varcare un limite invalicabile, quello della propria identità profonda, che deve essere riconosciuta da tutti senza possibilità di confusione. La pastorale, nelle sue molteplici espressioni, ha bisogno di denaro (e di volontariato) per andare avanti. Chiedere aiuto ai tuoi tantissimi “parrocchiani social” mi sembra in questo caso la soluzione migliore, anche perché puoi dare conto delle attività svolte con video e reel. La gente è generosa se si è credibili.

Ho ammirazione per don Alberto, perché ha il coraggio di avventurarsi in campi minati fuori dal recinto. Vedo una vena profetica in questo, non diversa da tanti sacerdoti che in tempi anche non lontani lo hanno preceduto in missioni rischiose, subendo critiche soprattutto dentro la Chiesa. Ma, se oggi li ricordiamo, e se la loro profezia è ancora oggi presa a modello (uno per tutti don Lorenzo Milani), è perché hanno saputo rimanere dentro, in piedi ma obbedienti (e a denti stretti). E se lo hanno fatto, è perché quella loro identità chiara, difesa anche dalla comprensibile tentazione di mollare tutto, si fondava sull’Unico a cui stare attaccati. Ad ogni costo.


La pubblicità di don Alberto Ravagnani sui social