C aro don Stefano, sono un padre di famiglia felicemente sposa to con due figli di 26 e 28 anni. Sono anni che io e mia moglie Patrizia riflettiamo sul futuro dei nostri figli; uno di loro, di- - plomato alla scuola alberghiera come cuoco, finiti gli studi e dopo aver frequentato tirocini presso vari ristoranti, si è trovato a lavorare sotto inquadrato e sottopagato per 8 anni. Se chiediamo alle persone di nostra conoscenza se è giusto che un ragazzo debba lavorare fino a 14 ore al giorno senza avere il giusto riposo, meno ancora il giusto stipendio e senza una vita sociale, la risposta è: «Si sa che nella ristorazione funziona così». Una breve cronistoria, allora, per capire meglio la situazione: in un ristorante mio figlio è stato assunto per tre ore giornaliere nei giorni di venerdì, sabato e domenica, mentre arrivava a lavorare 12 ore circa al giorno, con un solo giorno di riposo settimanale. In piena pandemia, poi, dopo aver frequentato un corso avanzato di cucina di uno chef stellato, suo insegnante, questi gli ha proposto di lavorare con lui in un resort. Peccato che gli abbiano fatto firmare un contratto come bracciante agricolo, anche se svolgeva la mansione di cuoco. Dopo qualche mese, stremato, ha comunicato la sua intenzione di smettere perché non riusciva a reggere. Tornato a casa amareggiato e deluso, è andato a lavorare per un mese in fabbrica come operaio. L’avrebbero assunto a tempo indeterminato, ma poi ha smesso perché voleva fare il cuoco. E allora ha ricominciato in diversi locali, spostandosi di volta in volta, ma le condizioni lavorative erano sempre le stesse. Ultimamente è andato in Francia senza conoscere nessuno e tanto meno la lingua, ma armato solo della sua passione. Lì è stato assunto e riceve regolarmente lo stipendio, lavorando 42,5 ore a settimana. Come mai in Francia i contratti di lavoro si rispettano? Come nostro figlio ci sono tanti altri ragazzi che hanno fatto la valigia per andare a cercare lavoro all’estero per essere considerati come persone. Se speriamo che possa realizzare i suoi sogni, per l’Italia speriamo che si faccia una reale riflessione. GABRIELE ROSAVERDE
C aro Gabriele, la situazione di tuo figlio, costretto a emigrare per realizzare i suoi sogni professio nali, mette tristezza. Hai ragione ad arrabbiarti, anche perché non è una situazione inedita o rara: - riguarda tanti giovani costretti a partire da casa per raggiungere posti lontani per trovare lavoro. Ragazzi come tuo figlio, spesso dotati di professionalità molto ricercate sul mercato, si aggiungono a quelli, con specializzazioni universitarie di altissimo livello, che devono “fuggire” all’estero perché non trovano spazio nel le nostre università e centri di ricerca. Il Rapporto di Migrantes dello scorso novembre, che citi nella tua lettera (che per motivi di spazio ho dovuto ridurre), fa una foto della situazione: tra il 2021 e il 2022 hanno lasciato l’Italia più di 80mila giovani di età compresa tra i 18 e 34 anni. Un’emorragia. Chi fa ricerca su questo fenomeno, attesta tre principali cause che provocano questo fenomeno. La prima è, come nel caso di tuo figlio, la convinzione di chi emigra che non può fare diversamente, unita alla grande sofferenza nell’abbandonare famiglia, amici, patria. È una sconfitta per loro, ma soprattutto per il nostro Paese. In secondo luogo il gap retributivo. In Italia, sia per i laureati che per i diplomati, la prima retribuzione (ma nel caso di tuo figlio anche la seconda, la terza, la quarta) non è sufficiente per rendersi autonomi. Il giovane è considerato come una sorta di stagista, con paghe insufficienti (dai 600 ai 1000 euro mensili in media). In Germania e Francia le retribuzioni di partenza vanno per il primo lavoro, invece, dai 30 ai 40 mila euro lordi annuali. In terzo luogo la nostra cultura del “lavoro fisso” (o “a tempo indeterminato”): nei Paesi europei (ma anche extraeuropei) non esiste questo concetto: ogni volta che sei assunto sai che, se non rendi abbastanza, potrai essere allontanato senza tante formalità. Si noti che questa forma di contrattualizzazione non è considerata “precariato” fuori dall’Italia, ma è un naturale incentivo a crescere professionalmente e aspirare a migliori retribuzioni e lavori. Competenza che fa la rima con (sana) concorrenza. Aggiungo che in Italia non mancano le eccellenze in tantissimi campi, compresa - anzi! - quella dove tuo figlio ha trovato la sua vocazione professionale. La differenza la fa la cultura, favorita dalle differenti regole di mercato che vigono da noi. Urge una riforma seria, un ripensamento da cui ripartire per sperimentare nuove soluzioni che invertano questa emorragia. E nel frattempo essere vicini e incoraggiare questi giovani a tenere duro e dare il meglio di sé lì dove si trovano


