Nel cuore di Trastevere sorge la basilica dedicata a Santa Cecilia. Varchiamo il portale ed entriamo idealmente in questo splendido tempio, ricco di arte e di memorie storiche. Ci dirigiamo verso il presbiterio e, sotto il baldacchino marmoreo di Arnolfo da Cambio, si è subito attirati da una giovane donna in marmo bianco deposta per terra: lo scultore Stefano Maderno la ritrasse così come apparve, quando nel 1599 fu scoperchiata la sua tomba. Ancora intatta, Cecilia, la nobile cristiana martire con lo sposo Valeriano sotto una persecuzione del III sec., commuove ancora oggi attraverso la statua che la riproduce nel suo riposo eterno.

La sua vicenda è avvolta nella leggenda e per questa via divenne patrona della musica, a causa di un equivoco legato a un canto in suo onore. È per questo che, nella data della sua memoria liturgica, sabato 22 novembre, e nella domenica seguente si celebra il Giubileo dei Cori e delle Corali. Non per nulla, Raffaello aveva dipinto Cecilia mentre suonava un organo, quasi ad accompagnare un canto liturgico. Basterebbe, comunque, far risonare la voce del Salmista: «Cantate inni a Dio, cantate inni; perché Dio è re di tutta la terra, cantate inni con arte» (47,7-8).

Anche san Paolo ammoniva: «State insieme con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore col vostro cuore» (Efesini 5,19; Colossesi 3,16). Nel maggio scorso si è celebrato il Giubileo delle Bande musicali; ora si vogliono sostenere le corali parrocchiali, perché rendano più viva la liturgia e facciano scoprire che la musica può essere una “scala” per ascendere a Dio. Abbiamo, così, scelto – un po’ liberamente – di porre sulla ribalta un’istituzione che spesso è considerata in crisi e persino superata, la parrocchia. Ci affideremo solo a una nota suggestiva di carattere etimologico biblico.

Ecco come il vocabolo greco di base paroikía appare nella Prima Lettera di Pietro: «Comportatevi con timore di Dio nel tempo della vostra paroikía» (1,17). La parola rimanda letteralmente a un soggiorno «fuori» (parà) dalla «casa» (oikía) originaria, suggerendo quasi una condizione di straniero. In pratica, san Pietro ricorda ai cristiani che il nostro è solo un passaggio transitorio in questo mondo. Come dirà la Lettera agli Ebrei, «noi non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (13,14).

Scopriamo, così, in modo inatteso che, a livello originario, la “parrocchia” è uno spazio in cui sono tutti stranieri e ospiti. “Parroco” deriva similmente dal greco pároikos, vocabolo presente 4 volte nel Nuovo Testamento col significato di «straniero, lontano da casa», così come pároikoi sono i cristiani, sempre secondo san Pietro (2,11), pellegrini, destinati però ad essere «concittadini dei santi e familiari di Dio» (Efesini 2,19).

La “parrocchia”, allora, è uno spazio aperto e non identitario in senso esclusivo: in esso sono tutti un po’ ospiti e stranieri, si accolgono reciprocamente e camminano insieme verso un’altra meta, come accadde ad Abramo, nostro padre nella fede, il quale «soggiornò come straniero (paroikéin) nella terra promessa» (Ebrei 11,9).