Nella prima Domenica del mese di Novembre quest’anno siamo invitati a celebrare la liturgia in memoria di tutti i defunti. Un’occasione per ricordare con aff etto tutti e tutte coloro che abbiamo conosciuto e amato e che già godono dell’incontro con Dio, ma anche per soff ermarci a contemplare il destino di vita piena che ci accomuna e che ci chiama.
Il brano del Vangelo di Giovanni che lo schema A della liturgia propone ci è d’aiuto. Gesù ha guarito un infermo alla piscina di Betzatà e, poiché quel giorno era un sabato, i Giudei (espressione con cui Giovanni indica coloro che erano ostili a Gesù) contestano la sua azione e cominciano perseguitarlo. La replica di Gesù alla contestazione – «Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco» (Giovanni 5,17) – fa esplodere la loro rabbia che si trasforma subito in intenzioni omicide.
La schermaglia polemica prosegue e, ispirandosi all’immagine di un apprendista di bottega che impara guardando e imitando, Gesù dice di non trovare in sé la forza di agire, ma in Dio. Nel «fare» del Padre si radica il «fare» del Figlio. È l’amore del primo a fare da garanzia e fondamento all’apprendistato del secondo. Per questo speciale legame di comunione, nell’agire del Figlio e nella sua parola si incontrano la parola e l’agire del Padre. Lo si è già visto nel segno miracoloso dell’infermo sanato, ma occorre prepararsi a vedere «opere più grandi» ancora.
A cosa si riferisce l’evangelista? Il contesto spinge a pensare che si tratti di ciò che immediatamente segue. «Far vivere» e «giudicare» sono dunque le opere grandi che il Figlio compirà, avendone ricevuto il potere dal Padre. Molto significativa è la successione in cui Giovanni dispone le due azioni: dare la vita precede il giudizio, diversamente da ciò che si riteneva abitualmente (prima il giudizio fi nale, poi il dono della vita perenne). La volontà di salvezza di Dio ha sempre la precedenza assoluta sul giudizio di condanna. La capacità di strappare l’uomo alla morte era privilegio unico di Dio nella tradizione ebraica dell’Antico Testamento. Qui, tale capacità viene attribuita a Gesù, il quale ne fa una qualità dell’essere in rapporto con Lui. Questo «venire alla vita» non consiste nella risurrezione che accade alla fi ne della storia, bensì nel cambiamento qui e ora dell’esistenza terrena. Una trasformazione che permette, a chi la accoglie attraverso l’incontro con Gesù, di sperimentare la «vita piena» che Dio desidera per ogni uomo. Il giudizio si gioca nell’incontro con Lui: chi lo accoglie e lo ascolta si orienta alla vita, viceversa chi non crede procede verso la morte (da intendersi non come decesso ma come vita all’infuori della relazione con Dio). Questo «accogliere e ascoltare» cui Gesù fa riferimento non è da intendersi in senso teorico, bensì nella sua ricaduta etica. Entrare nella «vita piena» chiede un’obbedienza concreta alla parola del Figlio, una pratica dei suoi insegnamenti che dia all’ascolto valore e spessore, evitando che diventi un vano prestare orecchio.


