La liturgia della domenica in cui si ricorda la Dedicazione del Duomo ci consegna parole della Prima lettera ai Corinzi al contempo consolanti ed esigenti: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?». L’Apostolo si sta rivolgendo alla comunità cristiana con espressioni di rimprovero per via delle discordie e faziosità che regnano all’interno di essa. Ai richiami aggiunge però parole di esortazione che ricordano ai Corinzi la grandezza di ciò a cui sono chiamati, insieme a tutti coloro che accolgono e vivono il Vangelo. Sono lo spazio in cui lo Spirito di Dio prende dimora e compie grandi cose, a patto di restare saldamente ancorati al vero fondamento che è Gesù Cristo.

Questo è il vero discrimine che separa ciò che resiste da ciò che si perde: fare della parola di Gesù il criterio determinante, a dandosi ad essa senza condizioni e compromessi. È la sostanza del brano di Giovanni che è stato scelto come terza lettura della liturgia. Ci troviamo al capitolo 10 del quarto Vangelo, Gesù ha guarito il cieco nato e ha concluso l’episodio con il discorso del buon pastore. In continuità tematica con quel discorso, l’evangelista apre una diversa scena, segnalata da nuove coordinate spazio-temporali: ricorre la festa della Dedicazione del Tempio e ci si trova sotto il portico che chiudeva il lato est della spianata, dove la gente soleva radunarsi ad ascoltare gli insegnamenti della Legge.

Gesù viene letteralmente accerchiato dalle autorità religiose, che Giovanni chiama qui «Giudei». La presenza, le parole, le azioni di Gesù causano loro preoccupazioni e ansie (letteralmente gli dicono: «Ci togli il respiro ») che gli chiedono di risolvere pretendendo una dichiarazione esplicita sulla sua presunta identità messianica. Gesù non intende accondiscendere alla richiesta dei Giudei perché il problema non sta in una sua presunta reticenza, bensì nella incredulità dei capi. Le sue opere – da intendersi come tutto l’insieme del suo agire – hanno già mostrato di che natura è il suo rapporto con Dio, perché sono compiute in piena comunione con il Padre suo. Certo è un’argomentazione paradossale, poiché può essere colta solo da chi ha lo sguardo della fede, giusto ciò che manca ai Giudei. Ma è così che Gesù si sposta sul piano della fede-incredulità, vero nocciolo della questione.

Il concetto, espresso ancora con la metafora del pastore e delle pecore, in sostanza è questo: c’è una chiamata che il Padre rivolge a ciascuno, senza alcuna distinzione, a vivere un rapporto di stretta comunione e intimità con il Figlio. Questi opera in perfetta armonia di volontà con il Padre, il cui desiderio è offrire a ognuno, fin da subito e in modo invincibile, una vita piena e senza  ne. Tale chiamata è però all’insegna della libertà e ciascuno può rispondervi nei modi e nei tempi che ritiene opportuni, con la possibilità anche di rifiutarla. Proprio come fanno i capi che, in chiusura di scena, prenderanno subito delle pietre per improvvisare una lapidazione di colui che considerano solo un bestemmiatore.