Nella Quarta Domenica dopo il Martirio del Precursore, siamo invitati dalla liturgia a metterci in ascolto di un passo tratto dal discorso sul “pane di vita”, che Giovanni mette sulla bocca di Gesù all’interno del sesto capitolo del suo Vangelo. La folla ha appena assistito al prodigio della moltiplicazione e distribuzione dei pani sui monti attorno al lago di Tiberiade. Entusiasta di quanto ha veduto, la gente manifesta l’intenzione di prendere Gesù e proclamarlo suo re, suscitando il suo disappunto e spingendolo ad allontanarsi per cercare la solitudine. Il giorno successivo, nel tentativo di distanziarsi ulteriormente dalla folla, Gesù si sposta a Caàrnao dove però viene seguito da coloro che lo cercavano.
Raggiunto nella sinagoga del villaggio, agli astanti rimprovera di cercarlo solo per il cibo e non certo per il segno che hanno visto, invitandoli poi a darsi da fare per cercare il «cibo che rimane per la vita eterna».
Da lì inizia un lungo discorso in cui sostanzialmente presenta se stesso come «pane della vita» e la cui conclusione sono proprio i versetti che ascoltiamo nella celebrazione.
Nel primo di essi, Gesù fa un passo ulteriore nella rifl essione dichiarando come sia necessario nutrirsi della sua carne per entrare nella vita piena, con una metafora eucaristica a noi chiara. Non così per i Giudei, i quali reagiscono obiettando poiché, non potendo cogliere la metafora, interpretano quelle espressioni in senso immediato, dunque come una sorta di invito al cannibalismo.
La risposta di Gesù è volta a chiarire cosa signifi chi «mangiare la sua carne», un tema decisivo per i discepoli delle generazioni successive, per i quali è ancora più complesso comprendere come far propria la vita off erta da Cristo. Subito viene stabilita una condizione: si accede alla «vita piena» mangiando e bevendo la carne e il sangue del Figlio dell’uomo.
L’orizzonte è indiscutibilmente quello eucaristico, ma non certo da intendersi in senso magico. Non basta, cioè, il gesto in quanto tale per accedere automaticamente alla «vita eterna», perché il contesto dell’intero discorso fa intendere che determinanti sono piuttosto il rapporto con la persona di Gesù e la fede in Lui. D’altronde è proprio la fede che permette di vedere nella carne e nel sangue dati come nutrimento la metafora della croce con il suo valore salvifi co.
Chi «mastica» (così il testo letterale) la carne e il sangue del Cristo come pieno atto di fede e di adesione a Lui, sperimenta un legame inscindibile con Colui che è la vita e che, dando se stesso, si apre alla vita che non fi nisce. In questo senso la sua carne e il suo sangue sono alimento e bevanda autentici («veri»), poiché sono affi dabili nell’introdurre in un’esistenza in cui non vi sono più fame e sete. Così, per il discepolo che nella fede e nell’amore fa esperienza dell’Eucaristia, inizia un nuovo rapporto con Gesù, per il quale si è reciprocamente l’uno dentro la vita dell’altro, formando una cosa sola a immagine di ciò che accade tra Lui e il Padre suo.
don Cristiano Mauri


