In questa quarta domenica dopo Pentecoste le parole del Signore Gesù che ci sono affidate suonano particolarmente dure: «Venne il diluvio e li fece morire tutti», così come «piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece morire tutti». L’episodio di Lot e quello di Noè ci parlano di un momento nel quale l’uomo aveva smarrito la strada e si era dimenticato della relazione fondamentale con Dio, aveva seguito solo i «desideri della carne», se vogliamo usare le parole di san Paolo. L’intervento divino, nella sua drammaticità e apparente violenza, permette di ripartire, che si ritorni a quell’equilibrio originale nel quale l’uomo ha la possibilità di godere al meglio della propria vita e dei doni che Dio gli ha fatto. Dio non agisce per abbandonare l’umanità alla sofferenza, ma per offrirle nuovamente una possibilità di redenzione, di felicità e di pienezza dalla quale ci auto escludiamo ogni volta che perdiamo il legame con Lui.
Il Signore ci parla, quindi, di un progetto di salvezza, una manifestazione di cura e attenzione da parte dell’unico Padre misericordioso, che non abbandona mai i suoi figli, anche quando questi si dimenticano di Lui. L’uomo abbandonato a se stesso è incapace di salvarsi da solo schiacciato dal proprio peccato e in balia dei suoi desideri egoistici.
La frase conclusiva del passo del vangelo di Luca è quella che illumina l’intero brano: «Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva». Dobbiamo comprendere cosa vuol dire esattamente cercare di salvare la propria vita e cosa vuol dire perderla, in questo contesto. Salvare la propria vita è metterla prima di ogni altra cosa, ponendo se stessi al centro di tutto e mettendo al primo posto il nostro pensiero, i nostri desideri, le nostre passioni. Salvare la propria vita è credere sia possibile realizzare in autonomia la salvezza, essere da soli i fautori di questa. Dio quindi diventa un accessorio, un di più del quale non necessito. Al contrario, quando Gesù parla di perdere la propria vita non sta certo facendo un invito a porle fine. Perdere la vita è affidarla a Colui che ce l’ha donata, l’unico che può realizzare la salvezza. Perdere la vita è riconoscere la bellezza del donarla come Gesù stesso ci ha mostrato nella sua esistenza, perché porti frutto il seme deve morire, perché si tramuta in pianta.
È interessante notare che chi perde la vita non la salverà, ma la «manterrà viva». Affidare la propria esistenza a Dio e riconoscere il nostro legame con Lui, fa si che la vita resti viva, cioè non si tramuti in un sopravvivere, in un trascorrere dei giorni indifferenziato. Difendere la nostra vita è farne dono, affidarla a Dio, perché consapevoli di non bastare a noi stessi. Come tutto questo si realizza nella nostra esistenza? Siamo consapevoli che quanto più saremo “il centro del mondo”, tanto più ci staremo perdendo? Avere la certezza di non poter essere la fonte della nostra salvezza è essenziale per non perdere la possibilità che si realizzi. Come ci suggerisce san Paolo: «Lasciamoci guidare dallo Spirito»! La nostra vita resterà viva e gusteremo la sua bellezza.


