In Geremia il cuore di madre di Rachele piange la perdita di figli e figlie. Non vuole essere consolata, non può fare il lutto: sarebbe come accettare che davvero non ci siano più. Capiamo più avanti che l’allusione è alla deportazione e all’esilio. Siamo sul filo del rasoio della salute mentale. Da una parte è necessario il lavoro dell’accettazione della perdita, altrimenti si impazzisce. Dall’altra è orribile pretendere che proprio colei che ha dato vita si rassegni al non esserci più di coloro che ha generato. Le parole divine che il profeta riferisce rivelano che il cuore paterno di Dio condivide il dolore di Rachele, offrendole l’unica consolazione che possa placarne il pianto, per quanto possa apparire “incredibile”: «Essi torneranno dal paese nemico. C’è una speranza per la tua discendenza…». Ciò che sostiene la speranza della madre è che il ritorno – nella duplice accezione di tornare dall’esilio e di convertirsi dal peccato – è sempre possibile grazie alla misericordia di Dio; un Dio che si commuove ed è scosso da una tenerezza talmente profonda da spingerlo a varcare i confini del “credibile”, del ragionevole, del buon senso. Scrivendo ai Romani Paolo ricorda che grazie al dono dello Spirito siamo figlie e figli di Dio. Il segno della liberazione è la sconfitta della paura, che è ciò che appunto ci rendeva schiavi di potenze dominanti, reali o immaginarie che fossero. Il primo argomento di Paolo è fondamentale: si tratta del dono di poter invocare Dio come Abbà, Papà, dentro una intimità mai prima ritenuta possibile. Da ciò derivano due conseguenze: a) se siamo figli, siamo eredi con e come Gesù. Figlie e figli del Re, siamo tutti principi e principesse. Tutti e ciascuno prezioso e imperdibile; b) le sofferenze, le smentite, i dubbi che la condizione mortale insinuano, aggravati dal male che mettiamo continuamente al mondo e che subiamo, non sono insuperabili. Nel grido del dolore c’è sempre anche un anelito verso la salvezza, una richiesta di aiuto, una supplica: «Abbà! Padre!». Perciò possiamo vivere le tribolazioni come una attesa; di più, come la speranza certa che nessuna vita sarà abbandonata alla morte definitiva. Giuseppe, padre legale di Gesù, si offre di custodire insieme a Maria la vita del Figlio di Dio che gli è affidata. Come ogni buon papà farebbe, porta in salvo la famiglia sottraendola alla furia del re Erode. Pazzo di rabbia, una rabbia che viene dal dispetto che il suo potere sia irriso dai magi che non tornano a dirgli dove hanno visto il bambino atteso, e dal terrore che il suo trono possa essere usurpato dal Messia-Re che è nato, Erode ordina lo sterminio dei maschi «da due anni in giù». Il rimando all’Esodo è duplice: il Faraone che ordina l’uccisione dei maschi ebrei; il bambino che fa a ritroso il cammino del popolo liberato per condividerlo. Tutto questo accade a un piccolo che non ne ha coscienza e la cui vita dipende dal coraggio dei suoi. La paura del vecchio re, vittima dei suoi fantasmi, porta distruzione e morte; il coraggio di Giuseppe e Maria, che vince la paura dell’ignoto (Egitto), salva la vita a chi rivelerà la salvezza senza prendere il potere di nessuno.