Nella lettura evangelica della III domenica dopo Pentecoste troviamo una delle caratteristiche più tipiche dello stile di Matteo, il quale ha l’abitudine di accompagnare vari episodi della vita di Gesù con il ritornello: «Perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta», associato a una citazione dell’Antico Testamento. Per dieci volte, infatti, altrettanti episodi sono commentati in questo modo da Matteo. Ben quattro di essi sono concentrati nei racconti dell’infanzia, ma l’espressione ricorrerà, successivamente, anche: dopo le tentazioni, dopo la guarigione di molti malati a Cafarnao e quella di un uomo in giorno di sabato, dopo l’incomprensione associata al discorso in parabole, all’ingresso a Gerusalemme, nel momento in cui si decide l’uso dei denari del tradimento di Giuda. L’elemento caratteristico di queste, che vengono chiamate tecnicamente «citazioni di compimento», è appunto il verbo «compiere», che nel testo originale ha il senso proprio del «completare, riempire, condurre a pienezza». Dunque, in senso lato, anche «perfezionare» e «realizzare» nel modo migliore possibile. Con il loro utilizzo, Matteo porta in primo piano gli elementi principali della sua comprensione del mistero di Cristo: egli è l’Emmanuele, è Figlio di Dio, è il Messia che si fa carico delle soff erenze di Israele per guarirle, è il re non violento, servo mite di Dio e speranza per tutte le genti.
Matteo tratteggia l’immagine di un uomo tutto compreso dentro il piano di Dio, che colloca volontariamente se stesso in tale disegno, sottomettendovisi consapevolmente e liberamente. In estrema sintesi, il Gesù di Matteo è il Figlio obbediente che «porta a compimento » l’opera del Padre. Se è vero, infatti, che egli ha compiuto le profezie nel senso che nella sua vita si sono propriamente e concretamente realizzate, è ancor più vero che la Legge e i Profeti in Lui si realizzano perfettamente perché ha vissuto come fi glio obbediente.
Gesù, infatti, orienta la sua vita onorando e praticando la volontà del Padre contenuta nelle Scritture, cercandone lo spirito nella sua primitiva purezza, a costo di apparire a tratti perfi no estremistico. In questo, traccia la strada a ogni uomo e donna che vive costantemente il dilemma di coscienza su cosa sia la pienezza della propria vita.
Il brano di Genesi che ascoltiamo come prima lettura, rappresenta tale interrogativo in modo mirabile. Adamo ed Eva sono posti di fronte a un bivio: allearsi con Dio credendo alla sua parola o considerarlo come avversario? Egli aveva off erto loro i beni del giardino – «Potrai mangiare di tutti gli alberi» (Genesi 2,16) – dunque a godere appieno della vita, ma invitandoli a governare la bramosia – «Dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare» (Genesi 2,17) – che altrimenti li avrebbe consumati. Nel comando divino c’era una legge profonda dell’esistenza: la vita in pienezza passa dal rispetto autentico della vita altrui. È facile vedere come Gesù, il Figlio obbediente, abbia risolto il dilemma portando quella legge a perfetto compimento.


