I versetti evangelici che ascoltiamo nella sesta domenica dopo la Pentecoste seguono, nel racconto di Matteo, i severi rimproveri che Gesù ha rivolto alle città attorno al lago – Corazin, Betsaida, Cafarnao – nelle quali la sua parola non ha trovato spazio.
In tutta risposta al rifiuto ricevuto, Gesù esplode in una preghiera di lode fatta ad alta voce e il motivo della sua esultanza va bene inteso: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza» (Matteo 11,25-26). Non gode certo perché ai sapienti sono inaccessibili i misteri del Regno, bensì gioisce del fatto che il Vangelo si fa strada nonostante le resistenze di alcuni.
I «sapienti» vanno identificati con l’aristocrazia religiosa di Israele, l’élite che aveva la pretesa di comprendere e possedere le chiavi dei misteri di Dio. I «piccoli» sono da intendersi letteralmente come degli ignoranti, immaturi, sempliciotti. Più che l’ammissione di una sconfitta – Dio ha fallito coi sapienti – nell’esultanza di Gesù c’è l’annuncio di una vittoria: il Regno è rivelato proprio a chi, apparentemente, ha meno possibilità per comprenderlo. Il vero sapiente, peraltro, è proprio Lui. La conoscenza tra il Figlio e il Padre è perfetta, in virtù del suo spirito di affidamento.
Per questo invita a sé oppressi e afflitti. Lo fa sulla scorta della tradizione nella quale la Sapienza divina chiamava gli incolti che la cercavano in una vita di obbedienza e giustizia. Il giogo stesso, in ambito religioso, fa riferimento al «giogo della Sapienza» nel senso della sottomissione alla Legge, associata però a un’esperienza di soddisfazione e gioia, di libertà e gratificazione.
Qui è Gesù che chiama, con la sua Sapienza fatta di mitezza, umiltà, affidamento al Padre. Si rivolge a tutto l’Israele affaticato dal modo in cui scribi e farisei lo hanno caricato della Legge e della necessità di osservarla, descrivendo la sua chiamata come un sollievo piuttosto che un'occasione di fatica.
Quale differenza tra Lui e i maestri della Legge? L’espressione «mite e umile di cuore» allude a un atteggiamento interiore di abbassamento, tipico di chi si mette in secondo piano per il bene dell’altro. Gesù vive ciò che insegna, perciò la sua è una chiamata mite e umile, a pieno servizio della persona, niente affatto violenta, oppressiva, impositiva, minacciosa o ricattatoria.
Per questo camminare con Lui in affidamento al Padre è riposante, dà respiro alla vita, allarga i polmoni della fede, fa sollevare il capo e vivere con speranza e ottimismo.
Nelle sue parole, nelle sue opere e in tutta la sua persona si respira dunque la stessa aria consolante di liberazione e promessa di vita nuova che permea il racconto della chiamata di Mosé, presente nella prima lettura. Il Padre di Gesù è Dio di libertà, che ascolta il grido di chi è oppresso e si fa alleato di tutti coloro che si trovano oppressi, per offrire loro opportunità di riscatto e di salvezza.


