La Domenica che chiude l’anno liturgico è dedicata alla contemplazione della sovranità di Cristo e nella celebrazione eucaristica abbiamo la possibilità di ascoltare ancora una volta il grande aff resco del giudizio fi nale di Matteo 25. Il brano chiude una sessione di insegnamenti dedicati al tema della fi ne dei tempi e della vigilanza ed è l’ultimo corposo intervento di Gesù a favore dei suoi prima della sua Passione.

Il quadro allestito è solenne. Il Figlio dell’uomo nelle vesti di un re, in presenza della corte celeste, viene nella sua gloria prendendo posto sul trono. La sua venuta raduna i popoli, da intendersi come gli appartenenti ad ogni nazione sulla terra, considerato il contesto missionario a carattere universale tipico del fi nale di Matteo. La moltitudine delle gente che si presenta al suo cospetto è paragonata a pecore e capretti, una similitudine in verità non chiarissima, tanto che le interpretazioni a riguardo non riescono a convergere.

Ciò su cui l’attenzione deve cadere, però, è l’azione di cui il pastore/re si rende responsabile: gli uni vengono separati dagli altri senza che vi sia alcuna valutazione o interrogatorio. La separazione avviene sulla base di una qualità evidente come quella che distingue una capra da una pecora. Solo il dialogo successivo tra il re e i due gruppi permetterà di comprendere il criterio che ha motivato un giudizio espresso in assoluta sovranità. A coloro che vengono posti alla destra viene riservata un’accoglienza altamente benevola e aff ettuosa, insieme al premio dell’eredità.

Il dono è gratuito e l’accesso è garantito solo a chi si è contraddistinto per un modo preciso di giocarsi nel rapporto coi «piccolissimi» (così il testo, intendendo i più miseri tra i miseri, al punto da essere insignifi canti). I «piccolissimi» fanno da punto di discrimine poiché con essi il re dichiara un legame profondo, li chiama infatti fratelli. Il riferimento è a gesti di compassione e cura che hanno caratterizzato l’agire di alcuni e che sono stati assenti da quello di altri. È stato il concreto «fare» di ciascuno a scolpire negli uni e negli altri il destino di benedizione o maledizione. È stata, cioè, la libertà di ognuno a costruire il giudizio sulla propria esistenza.

In entrambi gli esiti, l’impressione è che ci si riferisca non tanto a una somma di episodi puntuali, bensì ad atteggiamenti stabili e consolidati – una sorta di habitus – che caratterizzano ordinariamente la persona. I primi sono normalmente dediti al prossimo, i secondi sono abitualmente portati a non farlo. L’inconsapevolezza che manifestano tanto i giusti che gli ingiusti, oltre a essere la condizione dell’eff etto sorpresa del giudizio, garantisce la gratuità del gesto di coloro che stanno alla destra, che non hanno praticato il bene in vista di una ricompensa. La prospettiva del supplizio eterno rappresenta la rovina cui destina se stesso chi non fa dell’amore per il prossimo la colonna vertebrale della propria esistenza. Dio lo si ama nel prossimo e la fede che salva ha la forma di una carità vissuta.