La morte inganna, Dio non mente

Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro Giobbe 19,26-27

 

Ogni domenica, alla fine del Credo, ripetiamo: «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà». Non è un mero atto di fede rituale: è la convinzione profonda su cui costruiamo la nostra esistenza. Non si tratta di fuggire dalla vita terrena, ma di guardare oltre, di confidare nella promessa di Dio, che offre più di quanto la nostra esperienza limitata possa immaginare. In questo contesto, il problema più grande della vita umana, la morte, assume una luce nuova. La morte non è semplicemente una chiusura: è anche apertura, non una fine definitiva ma un passaggio verso la vita piena. I primi cristiani la definivano dies natalis, il giorno della nuova nascita. Questa prospettiva cambia radicalmente il modo in cui comprendiamo la vita terrena: non più come storia principale, con l’aldilà come appendice, ma come prefazione che introduce alla storia fondamentale dell’esistenza, che si compie in Dio.

Dio non vuole la morte: Egli ha sempre lottato contro di essa. La risurrezione di Cristo ne è la prova definitiva, l’atto che ha forzato le porte della morte e ha rivelato Dio come amante della vita. In questa luce, le espressioni che talvolta leggiamo nei necrologi – “Dio ce lo ha dato, Dio ce lo ha tolto” – appaiono fraintese. Dio non riprende la vita: Egli la custodisce, la rinnova, la libera dalla morte. I cristiani, partecipando alla risurrezione di Cristo, possono affrontare la morte senza paura, con la certezza che essa non è l’ultima parola.

I nostri defunti, poi, non sono assenti. Sono vivi, non solo nella memoria e nell’affetto, ma in Dio, e quindi in un modo che trascende lo spazio e il tempo. Essi ci accompagnano, il meglio di ciò che hanno vissuto resta in noi come fermento vitale. Con loro il dialogo non si interrompe: possiamo ancora dire grazie, chiedere perdono, sciogliere malintesi.

La morte, pur dolorosa, non spezza i legami fondamentali. Al contrario, apre alla possibilità di una comunione nuova, partecipata e viva. Questa visione offre pace e consolazione. Come Simeone, possiamo affidare la nostra vita alla parola di Dio, dicendo: «Ora lascia che il tuo servo se ne vada in pace secondo la tua parola». Per questo, in ogni celebrazione eucaristica la Chiesa invoca il perdono divino per «tutti i nostri fratelli e sorelle che si sono addormentati nella speranza della risurrezione e, nella misericordia del Signore, per tutti i defunti perché siano ammessi alla luce del suo volto».

In ultima analisi, il cristiano non teme la morte perché sa che la sua vita non si esaurisce qui. La vita piena, la pienezza di gioia promessa da Dio, ci attende oltre la morte, e la risurrezione di Cristo ce ne garantisce l’accesso. In questa prospettiva, la morte non è un problema insormontabile, ma un passaggio verso la pienezza, e i nostri morti, vivi in Dio, restano partecipi della nostra storia e della nostra speranza. Aspettiamo dunque la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. La nostra fiducia in Cristo ci permette di vivere, amare e morire con serenità, consapevoli che, attraverso lui, ogni vita trova compimento e ogni morte si trasforma in nascita.