Ascoltare la Parola, custodire il cuore

Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro»

Marco 7,14-15

 

Dopo l’approfondimento del Mistero del Pane vivo (capitolo 6 del Vangelo di Giovanni), che ci ha accompagnato nelle ultime cinque settimane, riprendiamo oggi la lettura del Vangelo di Marco, che avevamo interrotto al capitolo 6, immediatamente prima della moltiplicazione dei pani. Ci è offerto oggi gran parte del capitolo 7, collocato quasi a chiusura della prma sezione del racconto marciano, prevalentemente ambientata in Galilea. «Si riuniscono intorno a Gesù i farisei e alcuni scribi, venuti da Gerusalemme»: hanno fatto un lungo viaggio, è vero, non però per cercare il Signore e la Vita che Egli è e dà, ma per avere di che accusarlo, facendosi forti della propria osservanza e impeccabilità. Gli pongono una domanda provocatoria, apparentemente finalizzata a comprendere, in realtà ostile: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi?».

Ci è consegnato oggi un ammonimento importante, che percorre tutta la liturgia: ogni volta che ci sentiamo giusti e “giudichiamo” i comportamenti e la fede stessa dei nostri fratelli rischiamo di «onorare Dio con le labbra, ma il nostro cuore è lontano da Lui». Il cuore, questo “guazzabuglio” pieno di emozioni, è la sede profonda della verità della nostra vita: lì non possiamo mentire! «Religione pura e senza macchia è visitare gli orfani e le vedove e non lasciarsi contaminare da questo mondo» (II lettura, Lettera di Giacomo): siamo chiamati ad amare con i fatti chi ci è vicino, soprattutto i più deboli, e a custodire il cuore; così soltanto onoreremo Dio! «Dal cuore escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza»; se non lo custodiamo, possiamo anche «osservare tutte le tradizioni» con puntualità, ma rimaniamo “cattivi”, prigionieri del male e capaci di generare ogni sorta di bruttura. I comandamenti di Dio non sono vincoli dati perché noi viviamo da schiavi: sono debarim, che in ebraico significa “parole” e anche “fatti”, a dire la capacità che ha la Parola di compiersi e portare frutto in chi la ascolta con sollecitudine; sono parole di amore, pronunciate da un Padre amorevole per il bene e la vita dei propri figli amati.

Il capitolo 4 del Deuteronomio (I lettura), che si colloca subito prima della seconda versione scritturistica del Decalogo (Deuteronomio 5,1-22), invita il popolo, salvato dal faraone e ricondotto per opera del Signore, «con mano potente e braccio teso», alla libertà e alla Terra della Promessa, a custodire il dono ricevuto, e insiste sul significato della Legge consegnata a Mosè: Dio l’ha «insegnata perché viviamo»; «osservarla» e «metterla in pratica» è «la nostra saggezza e la nostra intelligenza agli occhi del mondo».

La vita del cristiano è una testimonianza di Luce: egli trova pienezza e fecondità, che si fanno evidenti a tutti, nell’intimità col Signore e nell’ascolto docile; nell’amicizia con Dio è il segreto della vera «sapienza» e «intelligenza»: «avere Dio vicino a noi», «abitare nella sua tenda, restare saldi per sempre» (Salmo 14, Re- sponsorio), perché è Lui, Dio Trinità, che vive in noi, ci “inabita”, per grazia, dal Battesimo! Quale indicibile dono! Quale grande ricchezza! Quale pegno di eternità! Chiediamo al Signore, mentre riprendiamo la quotidianità feconda della vita, la grazia di trasformare il nostro cuore e renderlo simile al suo. Buona domenica, buon anno!