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Un piatto di spaghetti consumato in compagnia
Alle 10.44 ora italiana, da New Delhi, è arrivato il via libera che segna una pagina storica: la cucina italiana è entrata ufficialmente nella Lista del patrimonio culturale immateriale dell’umanità dell’Unesco.
Non un singolo piatto, non una ricetta simbolo, ma ad ottonere il riconoscimento per la prima volta è stata la cucina di un Paese e un modo di vivere il cibo, di cucinare, di stare a tavola, di trasmettere saperi e relazioni.
Un traguardo che si affianca ad altri già raggiunti dall’Italia: dalla Dieta mediterranea all’arte dei pizzaiuoli napoletani, dalla cavatura del tartufo alla viticoltura ad alberello di Pantelleria, fino ai paesaggi vitivinicoli di Langhe, Roero e Monferrato. Ora, a entrare nella lista è l’intero mosaico della cucina italiana, fatto di tradizioni regionali, familiari, comunitarie.
Dietro questo risultato c’è un lavoro lungo e corale. Il dossier, intitolato La cucina italiana, tra sostenibilità e diversità bioculturale, è stato curato dall’Ufficio Unesco del ministero della Cultura, redatto dal giurista Pier Luigi Petrillo e coordinato scientificamente dallo storico dell’alimentazione Massimo Montanari, insieme a un comitato di esperti. Fondamentale il contributo di soggetti che da decenni custodiscono e raccontano la nostra cultura gastronomica: l’Accademia Italiana della Cucina, la Fondazione Casa Artusi, la rivista La Cucina Italiana, Slow Food, la Federazione Italiana Cuochi e molte altre realtà.


Alcuni prodotti simbolo della cucina italiana
(Getty Images/iStockphoto)Nella candidatura non c’è un piatto “simbolo” (di quelli spesso copiati male all’estero), ma un’idea di cucina come pratica quotidiana, come intreccio di affetti, stagioni, materie prime, gesti tramandati. Una visione che trova un’espressione chiara anche nel saggio Tutti a tavola. Perché la cucina italiana è un patrimonio dell’umanità, firmato proprio da Montanari e Petrillo, che accompagna e spiega il senso culturale della candidatura.
«Tutti a tavola non è un richiamo, ma una constatazione», spiega Montanari, «la cucina italiana è cresciuta storicamente in modo inclusivo, accogliendo piatti, ricette, tradizioni, saperi e culture molto diverse». Una ricchezza che nasce non solo dalla varietà geografica del Paese, ma anche dall’incontro tra popoli che nei secoli hanno attraversato la penisola: «La cultura italiana è una “multiculturale”, dove la varietà è legata sia al territorio sia alla storia delle migrazioni e delle contaminazioni».
Pomodori arrivati dalle Americhe, la pasta passata per le rotte arabe e mediterranee, le trasformazioni nate dall’emigrazione: «È un modello di inclusività anche in uscita», prosegue Montanari nel volume, «la cucina italiana si incrocia facilmente con altre tradizioni. Non a caso è la più richiesta nel mondo: ovunque va, si modifica, si trasforma, dando vita a cucine italo-americane, italo-argentine, italo-australiane».
Proprio per questo, sottolinea lo storico, il valore della cucina italiana non dipende solo dal marchio Unesco: «È un patrimonio dell’umanità a prescindere dal riconoscimento, per il modo con cui è cresciuta, si è sviluppata ed è strutturata».
Il riconoscimento non è un sigillo di superiorità, né un’etichetta commerciale. È piuttosto un impegno preciso. In base alla Convenzione del 2003, l’Italia dovrà ora tutelare, studiare, trasmettere questa pratica culturale insieme alle comunità che la rendono viva: famiglie, cuochi, artigiani, produttori, associazioni. Significa investire in educazione alimentare, ricerca, archivi della memoria, progetti nelle scuole. Significa rendere conto, ogni sei anni, di come questo patrimonio viene custodito e consegnato alle generazioni future.
Sul piano simbolico, l’Unesco afferma che una parte essenziale dell’identità italiana passa dalla tavola. Sul piano concreto, questo riconoscimento rafforza anche la battaglia contro l’Italian sounding, che altera e sfrutta il nome della nostra tradizione senza rispettarne l’anima.
Molti chef hanno salutato la notizia come una “giornata storica”. Ma il punto, come ricordano gli stessi studiosi, non è il trionfo mediatico. È la responsabilità che ne deriva. Il rischio, semmai, è quello di trasformare la cucina in una cartolina per turisti, in una tradizione congelata. La vera sfida sarà continuare a tenerla viva, come pratica in movimento, capace di rinnovarsi senza perdere le radici.
In fondo, il riconoscimento Unesco ci affida un promemoria semplice e insieme esigente: la cucina italiana non è solo un’eredità da celebrare, ma una cura quotidiana da esercitare. Nei campi, nei mercati, nelle cucine professionali e in quelle di casa. E dove, ogni giorno, quel “tutti a tavola” resta il gesto più autentico di una comunità che si riconosce.




