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La nostra Bolt ha gli occhi azzurri. E, a differenza di Usain, corre (e vive) senza voltarsi, guardando sempre verso il traguardo. Il suo primo lo di lana è il 7 settembre. Martina Caironi, oro europeo, mondiale e paralimpico nei 100 metri, sarà l’alfiere degli azzurri alla Paralimpiade di Rio: «Non vedo l’ora che si cominci perché mi sta arrivando un po’ d’ansia. Quattro anni fa avevo l’incoscienza della neofita, nessuno si aspettava niente da me. Ma dopo l’oro di Londra, a Rio la pressione sarà diversa».
Portare la bandiera aggiunge valore simbolico a chi è già simbolo di suo: «Provo a immaginare l’emozione, ma so già che non ci si riesce. È come gareggiare in uno stadio con 80 mila persone: nessun racconto rende l’idea, anche se a Rio forse non ci sarà il pienone di Londra. Non m’aspettavo la bandiera, apprezzo il fatto che il presidente del Comitato paralimpico Luca Pancalli dica che mi hanno scelta per l’umiltà e per la correttezza. Rappresentare altri ti espone. Sto imparando: mi lascio coinvolgere se sento che la mia esperienza torna utile ad altri, ma so che devo salvarmi spazi per coltivare interessi culturali che non vanno solo nella direzione dello sport e della disabilità».
Martina ha 27 anni e studia Mediazione linguistica e culturale a Bologna, s’illumina quando si sente chiedere se ci sia bisogno di una mediazione culturale anche tra disabili e normodotati: «C’è eccome, lo vivo sulla pelle ogni giorno. Semplicemente correndo con i miei pantaloncini e la mia protesi a vista suscito reazioni nelle persone che incontro. A volte non è facile affrontarle: io faccio come tutti la mia vita quotidiana, non sempre ho tempo e voglia di stare ad ascoltare che cosa la gente abbia da dire riguardo alla mia gamba che non c’è».
Pesca a caso in una galleria di incontri bizzarri: «Mi è capitato di tutto: chi venendo da un altro Paese prova a darmi soldi perché pensa che non abbia di che vivere, chi scende dall’auto per dirmi: “Grazie, mi s’è aperto un mondo vedendoti correre”».
Da un lato si capisce che servirebbe mediare per capirsi tra culture diverse anche in tema di disabilità, dall’altro si resta spiazzati: «Ti dici “Cavoli, non ho fatto niente eppure ho rappresentato qualcosa senza accorgermene”. Credo che si dovrebbe parlare di più di disabilità, anche in Tv, per favorire approcci più naturali, qualche volta anche per arginare l’invadenza della curiosità: capita di trovare sconosciuti per strada che si permettono di chiederti tutto della tua vita solo perché ti vedono portare una protesi».
Incontri casuali come cartine di tornasole del pregiudizio: «Capisci subito se chi si relaziona con te ha in testa uno stereotipo: esiste ancora lo scarto di chi non ti tratta normalmente perché sei disabile, ma provo più tristezza che rabbia».
L'ISPIRAZIONE DI MARTINA CAIRONI, ATLETA
Martina ha provato la corsa coinvolta dal libro di Oscar Pistorius: «Se parlo nelle scuole è perché so per esperienza che serve un innesco: se sai che qualcuno l’ha già fatto ti senti autorizzato a esplorare vie nuove senza paura. Quello che è accaduto dopo a Pistorius riguarda lui e non c’entra con quanto ha rappresentato nello sport . Quando ho iniziato io non pensavo a vincere, solo a muovermi, l’agonismo è venuto dopo. Sono il tipo che si sente in trappola nella coda dal parrucchiere, figuriamoci fermata da un incidente in motorino che ti fa perdere una gamba a 18 anni. Ho iniziato per riprendermi la mia corsettina, per liberarmi dalla costrizione di star ferma e dipendere, non mi sono accontentata e ho scoperto che potevo anche vincere. Ora la corsa è il mio lavoro, mi fa star bene, mi dà da vivere».
È ovvio che con le Paralimpiadi alle porte la concentrazione sia tutta mirata ai 100 metri e al salto in lungo: «Ma non voglio focalizzare tutta la vita sul risultato sportivo, perché poi basta che vada storto un allenamento e ti rovini la giornata. Non è sano». Tra vivere e vincere cambiano poche lettere, ma né l’uno né l’altro sono percorsi ovvi e non ci si arriva da soli: «Quando hai attorno una famiglia attiva e presente rischi di darla per scontata, poi incontri storie diverse e capisci che non lo è: con i miei ho un ottimo rapporto, anche allegro. Quando accade qualcosa di tragico la prima reazione è l’abbattimento, ma poi ci vuole una dose di speranza che se non parte da te magari parte da qualcuno che ti è vicino e ti contagia. Per me la famiglia è stata fondamentale come gli amici, che sono l’altra famiglia, quella che ti scegli. Se vado a Rio è anche perché loro mi hanno sempre fatta sentire normale. L’altro fattore decisivo è stato la curiosità verso altre culture: accettare le diversità del mondo ti predispone ad accettare la tua».
Il futuro arriva di corsa. Rio è ai blocchi di partenza: «Sto andando in forma ora, dopo un lungo infortunio. Spero che la testa mi aiuti a tirare fuori nel momento decisivo quel qualcosa in più che sulla carta non ci sarebbe».
(Foto Ansa)
Portare la bandiera aggiunge valore simbolico a chi è già simbolo di suo: «Provo a immaginare l’emozione, ma so già che non ci si riesce. È come gareggiare in uno stadio con 80 mila persone: nessun racconto rende l’idea, anche se a Rio forse non ci sarà il pienone di Londra. Non m’aspettavo la bandiera, apprezzo il fatto che il presidente del Comitato paralimpico Luca Pancalli dica che mi hanno scelta per l’umiltà e per la correttezza. Rappresentare altri ti espone. Sto imparando: mi lascio coinvolgere se sento che la mia esperienza torna utile ad altri, ma so che devo salvarmi spazi per coltivare interessi culturali che non vanno solo nella direzione dello sport e della disabilità».
Martina ha 27 anni e studia Mediazione linguistica e culturale a Bologna, s’illumina quando si sente chiedere se ci sia bisogno di una mediazione culturale anche tra disabili e normodotati: «C’è eccome, lo vivo sulla pelle ogni giorno. Semplicemente correndo con i miei pantaloncini e la mia protesi a vista suscito reazioni nelle persone che incontro. A volte non è facile affrontarle: io faccio come tutti la mia vita quotidiana, non sempre ho tempo e voglia di stare ad ascoltare che cosa la gente abbia da dire riguardo alla mia gamba che non c’è».
Pesca a caso in una galleria di incontri bizzarri: «Mi è capitato di tutto: chi venendo da un altro Paese prova a darmi soldi perché pensa che non abbia di che vivere, chi scende dall’auto per dirmi: “Grazie, mi s’è aperto un mondo vedendoti correre”».
Da un lato si capisce che servirebbe mediare per capirsi tra culture diverse anche in tema di disabilità, dall’altro si resta spiazzati: «Ti dici “Cavoli, non ho fatto niente eppure ho rappresentato qualcosa senza accorgermene”. Credo che si dovrebbe parlare di più di disabilità, anche in Tv, per favorire approcci più naturali, qualche volta anche per arginare l’invadenza della curiosità: capita di trovare sconosciuti per strada che si permettono di chiederti tutto della tua vita solo perché ti vedono portare una protesi».
Incontri casuali come cartine di tornasole del pregiudizio: «Capisci subito se chi si relaziona con te ha in testa uno stereotipo: esiste ancora lo scarto di chi non ti tratta normalmente perché sei disabile, ma provo più tristezza che rabbia».
L'ISPIRAZIONE DI MARTINA CAIRONI, ATLETA
Martina ha provato la corsa coinvolta dal libro di Oscar Pistorius: «Se parlo nelle scuole è perché so per esperienza che serve un innesco: se sai che qualcuno l’ha già fatto ti senti autorizzato a esplorare vie nuove senza paura. Quello che è accaduto dopo a Pistorius riguarda lui e non c’entra con quanto ha rappresentato nello sport . Quando ho iniziato io non pensavo a vincere, solo a muovermi, l’agonismo è venuto dopo. Sono il tipo che si sente in trappola nella coda dal parrucchiere, figuriamoci fermata da un incidente in motorino che ti fa perdere una gamba a 18 anni. Ho iniziato per riprendermi la mia corsettina, per liberarmi dalla costrizione di star ferma e dipendere, non mi sono accontentata e ho scoperto che potevo anche vincere. Ora la corsa è il mio lavoro, mi fa star bene, mi dà da vivere».
È ovvio che con le Paralimpiadi alle porte la concentrazione sia tutta mirata ai 100 metri e al salto in lungo: «Ma non voglio focalizzare tutta la vita sul risultato sportivo, perché poi basta che vada storto un allenamento e ti rovini la giornata. Non è sano». Tra vivere e vincere cambiano poche lettere, ma né l’uno né l’altro sono percorsi ovvi e non ci si arriva da soli: «Quando hai attorno una famiglia attiva e presente rischi di darla per scontata, poi incontri storie diverse e capisci che non lo è: con i miei ho un ottimo rapporto, anche allegro. Quando accade qualcosa di tragico la prima reazione è l’abbattimento, ma poi ci vuole una dose di speranza che se non parte da te magari parte da qualcuno che ti è vicino e ti contagia. Per me la famiglia è stata fondamentale come gli amici, che sono l’altra famiglia, quella che ti scegli. Se vado a Rio è anche perché loro mi hanno sempre fatta sentire normale. L’altro fattore decisivo è stato la curiosità verso altre culture: accettare le diversità del mondo ti predispone ad accettare la tua».
Il futuro arriva di corsa. Rio è ai blocchi di partenza: «Sto andando in forma ora, dopo un lungo infortunio. Spero che la testa mi aiuti a tirare fuori nel momento decisivo quel qualcosa in più che sulla carta non ci sarebbe».
(Foto Ansa)



