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mercoledì 26 marzo 2025
 
GIUSTIZIA E POLITICA
 

Caso Csm, che cos'è la lottizzazione dei "laici" (e perché è un problema)

18/01/2023  Quando si parla di logiche di spartizione nel Consiglio superiore della magistratura, si pensa sempre alla magistratura. Ma il manuale Cencelli non risparmia la parte di nomina politica. Per un verso è fisiologico, ma se si esagera l'istituzione ne soffre

Il giorno giusto doveva essere il 17 gennaio, dopo un paio di mesi di rinvii, per completare finalmente, con la nomina da parte del Parlamento in seduta comune dei membri cosiddetti laici, cioè non togati, il nuovo Consiglio superiore della magistratura, dopo che il precedente aveva conosciuto dimissioni, decadenze e rimpiazzi a seguito del noto e non edificante caso Palamara. Un passaggio anche simbolicamente importante, per voltare pagina e guardare avanti.

LAICI RIMANDATI

Le cose non sono andate come sperato: solo 9 dei 10 componenti di nomina parlamentare sono stati effettivamente eletti. L’elezione del decimo non è riuscita perché la notizia che Giuseppe Valentino, uno dei nomi sostenuti da FdI, risulterebbe indagato presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria in un procedimento penale - connesso al maxiprocesso noto come Gotha in cui si contestano reati connessi alla 'ndrangheta -, ha indotto proteste dell’opposizione e una retromarcia in corsa. Il sostituto, individuato in Felice Giuffrè, ordinario di diritto pubblico a Catania, sarà eletto il 19 gennaio.

LOGICHE SPARTITORIE

  

L’episodio apre uno squarcio su un tema non secondario di cui si parla poco: i criteri con cui si scelgono i componenti di nomina parlamentare. Se, infatti, la spartizione correntizia delle candidature dei magistrati fa sempre discutere, tanto che si è cambiata per contrastarla più volte la legge elettorale (ultimo cambio riforma Cartabia), il fatto che la parte laica sia “lottizzata” per appartenenza politica pare dato da tutti per scontato, quasi che fosse un fattore ineluttabile, almeno nelle consiliature più recenti. Ce ne sono state molte in cui i nominati erano per la metà parlamentari e amministratori locali che transitavano direttamente dall’incarico politico al Csm (nel Consiglio 2014-2018 erano addirittura 7 su 8). E tra gli altri è capitato sovente che i proposti dai partiti, poi nominati, fossero avvocati di provincia, sconosciuti nel Paese ma vicinissimi, anche per rapporti di fiducia strettamente personali, a partiti o a singoli leader politici, e/o magari anche candidati da partiti alle elezioni e non eletti o ex parlamentari non rieletti.

Una tradizione che sembra non voltare pagina a dispetto del monito del presidente della Repubblica Sergio Matterella, che presiede anche il consiglio superiore, e che il 25 settembre 2018, in avvio di consiliatura, ricordava: «I componenti laici, secondo quanto prevede lo stesso art. 104 della Costituzione, sono eletti non perché rappresentanti di singoli gruppi politici (di maggioranza o di opposizione) bensì perché, dotati di specifiche particolari professionalità, il Parlamento ha affidato loro il compito di conferire al collegio un contributo che ne integri la sensibilità».

Tra i nomi eletti il 17 gennaio 2023 ci sono Fabio Pinelli, già difensore di Luca Morisi noto per aver ideato la macchina social detta “la bestia” della Lega; Claudia Eccher, avvocata di Trento, da anni legale di fiducia di Matteo Salvini; Enrico Aimi, avvocato di Modena, già senatore FI, ricandidato nel 2022 e non rieletto; Ernesto Carbone, candidato alle politiche con Matteo Renzi nel 2018 non eletto; Michele Papa, docente di diritto penale a Firenze, amico personale e tra gli uomini di fiducia di Giuseppe Conte.

COM'È ANDATA FIN QUI

A occhio e croce, come tante volte è accaduto fino al 1976 e dal in 1994 poi, il profilo politico sembra prevalere su quello giuridico, laddove nel periodo intermedio tra queste due date si assisteva – secondo l’analisi di Daniela Piana e Antoine Vauchez in Il Consiglio superiore della magistratura (Il Mulino),  a una progressiva “depoliticizzazione” man mano che  l’istituzione guadagnava «autonomia e importanza nelle dinamiche istituzionali», era il periodo in cui prevalevano i docenti universitari rispetto agli avvocati e in cui, pur essendoci una prossimità con la politica e una consonanza di idee con le aree che li esprimevano, prevalevano profili a una certa distanza dal gioco dei partiti tipico dei politici di professione. Non a caso è la stessa epoca che ha espresso come vicepresidenti giuristi di chiara fama, riconosciuti tali indipendentemente dalle loro idee, si pensi a: Vittorio Bachelet, Giovanni Conso, Cesare Mirabelli, Carlo Federico Grosso, Virginio Rognoni.

La Costituzione prescrive che i membri laici siano scelti dal «Parlamento in seduta comune tra professori ordinari in materie giuridiche o avvocati con almeno 15 anni di esercizio della professione». I costituzionalisti sono piuttosto concordi nel leggervi il suggerimento di un “alto profilo”.

La storia dice, però, che è anche capitato in passato che si siano anche verificati casi piuttosto clamorosi: nel 2014 si elesse Teresa Bene, in quota Pd, immediatamente sostituita per mancanza dei requisiti minimi richiesti dalla Costituzione, cosa che rende l’idea della considerazione in cui sono tenuti. Nel 2011 il Consiglio votò la decadenza di Paolo Brigandì, avvocato votato in quota Lega, perché accusato in corso di consiliatura di aver commesso un reato che solo un consigliere avrebbe potuto commettere: accedere alla documentazione riservata e passare alla stampa carte coperte da segreto e vecchie di trent’anni di un procedimento disciplinare  - concluso con piena assoluzione -  relativo a un magistrato che in quel momento indagava il presidente del Consiglio in carica Silvio Berlusconi. Un abuso d’ufficio per il quale Brigandì è poi stato condannato con sentenza definitiva.

PERCHÉ SAREBBE AUSPICABILE MAGGIORE INDIPENDENZA

  

Se sembra chiaro a tutti che l’eccessiva lottizzazione della parte togata fa danni perché offusca l’apparenza (e non solo) dell’indipendenza della magistratura, sembra meno chiaro all’opinione pubblica, che l’eccessivo collegamento della parte laica alla contingenza della politica e alle appartenenze di partito rischia di compromettere l’immagine e il buon funzionamento del Consiglio medesimo. In un momento in cui urge che il Csm recuperi la propria credibilità di organo di equilibrio e di contrappesi istituzionali, servirebbe uno sforzo congiunto, ciascuno per la propria parte. Anche perché – i fatti contestati nel caso Palamara  lo confermano – i patti (anche quelli inconfessabili come quelli contestati all’Hotel Champagne in cui al tavolo sedevano magistrati e politici) hanno sempre due contraenti. E se un’istituzione ha bisogno di trasparenza, l’ha bisogno in tutte le sue componenti, a garanzia di un confronto istituzionale il più possibile leale, al riparo da interessi di bottega.

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