EDOARDO M. - Se nel momento della morte l’anima è priva dei sensori che comunicano alla coscienza dolore e fastidio, le pene dell’inferno sarebbero solo storiacce per intimidire i creduloni?
L’uomo in quanto “persona” è unità di corpo, anima e spirito: non dobbiamo pensare all’anima come a qualcosa di separato totalmente dal corpo (o addirittura di una dimensione dell’uomo priva di coscienza). Neppure nella morte spirito, anima e corpo si separano totalmente, in quanto se – come preghiamo – si distrugge la dimora di questo esilio terreno (= corpo terreno), al tempo stesso ci viene preparata una dimora celeste (= corpo celeste). Purtroppo siamo abituati a pensare il nostro essere corporei come sinonimo di pura fisicità, che viene meno con la morte. Se invece pensiamo la persona come unità e la sua dimensione fisica come corporeità forse possiamo liberarci da una prospettiva troppo dualista. Del resto, non diciamo che è deceduto il corpo di nostro nonno, ma che è morto nostro nonno, non preghiamo l’anima di sant’Antonio, ma la sua persona. Poiché le nostre azioni buone o malvagie comunque sono compiute nella nostra corporeità, essa partecipa della salvezza o, Dio non voglia, della dannazione eterna. Questo è il senso delle cosiddette “pene corporali” connesse allo stato infernale. Il poeta francese Arthur Rimbaud, ripreso dal filosofo Michel Henry, scriveva: «I corpi saranno giudicati", quindi non saranno solo le anime a gioire o soffrire, ma le persone in tutte le loro dimensioni, come del resto in questa vita: se soffre il nostro corpo soffre anche la nostra anima e viceversa. Siamo in ogni caso al cospetto del mistero, di fronte al quale la nostra ragione può solo balbettare, senza giungere mai a una sua totale comprensione: è il mistero della morte che coincide con il mistero dell'uomo.
(Sopra, rappresentazione figurativa delle pene dell'Inferno, Museo di Arte antica di Lisbona, autore sconosciuto (foto Daniel VILLAFRUELA / Dominio Pubblico)