Si torna in campo, dopo la rivoluzione. La Coppa d’Africa, la competizione cui affidare l’ansia di riscatto. Sul campo, dopo aver incendiato le piazze, scacciato i tiranni, riabbracciato la democrazia. Tempo di misurarsi col meglio del calcio continentale, dopo aver ritrovato la via del successo.
Non tutti, però. Perché manca qualche pezzo, tra i Paesi delle rivoluzioni. Manca l’Egitto, soprattutto. Come pure l’Algeria. Ma ci sono gli altri: la Libia del dopo-Gheddafi, la Tunisia liberatasi da Ben Alì, il Marocco del presente che guarda al futuro, del Sudan uscito diviso in due dal referendum. Paesi nuovi. E calcio rinnovato. Soprattutto, vincente. Magari non per tutti.
Non per l’Egitto, sempre vincente sotto la guida di Hassan Shehahta, il ct fedele a Mubarak (3 successi di fila in Coppa d’Africa), ma ora neanche sbarcato alla fase finale del trofeo africano. Altri, invece, dopo le rivolte hanno preso a vincere, come in una naturale reazione al precedente oscurantismo. Risultati migliori, dopo il cambiamento. Qualcuno ha fatto i calcoli e i numeri non tradiscono mai. L’Egitto è l’eccezione, quella che conferma la regola. Quella è rappresentata da Tunisia, Libia, Sudan, Marocco e Algeria (che, come l’Egitto, non sarà alla Coppa d’Africa):dalla miccia tunisina in poi, hanno disputato 53 partite, vincendone il 45%, realizzando in totale 87 reti (1,64 a partita). Un anno prima, nello stesso periodo, 60 gare disputate, solo il 33% delle quali vinte, con 79 gol realizzati (1,32 a partita).
Benedette rivolte, anche per il calcio. Il calcio che s’è fermato sul campo, ma spesso è sceso in piazza. E che poi è ripartito, con rinnovato vigore. Il calcio che ha cambiato bandiera, come in Libia. Non solo bandiera (è tornata quella antica, dei tempi precedenti al regime di Gheddafi), ma pure l’inno nazionale. Il Paese strappato dalle mani di Muammar Gheddafi, il calcio da quelle del figlio Saadi, che ne aveva fatto il suo regno, dettando legge, combinando partite, decidendo retrocessioni a tavolino (dei nemici dell’Al Ahli, la squadra di Bengasi).
Rivolta sanguinosa, quella libica. Con tanti calciatori tra i protagonisti, dalla parte dei ribelli, come il portiere e altri tre nazionali (mentre il capitano è rimasto sempre al fianco del dittatore), insieme ad altri 12 giocatori di club, che abbandonarono le forze governative per passare coi rivoltosi. E poi, il ritorno in campo, a tagliare un importante traguardo, l’approdo alla Coppa d’Africa, dedicato dal ct brasiliano Marcos Paqueta “a tutti i libici e alla nostra rivoluzione”.
E poi, la Tunisia, il posto da cui il fuoco s’è propagato. Ben Ali aveva tiranneggiato, per 23 lunghi anni. Sul Paese intero, così come sul calcio. Non si muoveva foglia che il dittatore e il governo non volesse. La Federazione, cosa loro (nessuna elezione presidenziale democratica), soprattutto durante il regno del controverso presidente Ali Hafsi. Tutt’altra cosa, dopo la rivolta. Se il Club Africain, uno dei maggiori del paese, è diventato il primo ad eleggere in maniera democratica il suo presidente il merito è della piazza che ha scacciato il tiranno. Voce alta, quella dei rivoltosi, spesso levatasi dagli spalti degli stadi: esemplare la fuga sotto il peso degli insulti di Chiboub, figlio di Ben Ali, durante la finale di coppa nazionale.
E così in Algeria o in Marocco, dove il vento della protesta (che ha portato a riforme in senso democratico) ben presto dalle strade e dalla piazze s’è trasferito negli stadi. Com’è accaduto in Egitto, del resto. Ultras in piazza Tahrir, nemici uniti nella lotta: i tifosi dell’Al Ahly e dello Zamalek, fieri rivali di sanguinosi derby della capitale, fianco a fianco per sbattere in faccia le porte del Paese a Hosni Mubarak.
Si torna in campo, per la Coppa d’Africa. Il calcio del Continente Nero. Il calcio, dopo le rivoluzioni.