Come tutti i grandi vecchi, Franco Branciaroli, classe 1947, non ha niente da perdere e molto da dire. Qualcuno l’ha definito un “frantoio teatrale” perché macina prosa e versi da mezzo secolo. Scuola del Piccolo Teatro nel ’68. Prima volta sul palcoscenico nel 1970 (La battaglia di Lobowitz di Peter Hacks). Primo ruolo da protagonista nel Gesù di Dreyer per lo Stabile di Torino nel ‘74. Ha lavorato con mostri sacri del teatro come Aldo Trionfo e Luca Ronconi. Ha duettato a lungo con Carmelo Bene («un galantuomo del Sud, nel privato era molto diverso dal personaggio pubblico che si era creato»), a cominciare dal pastiche Faust – Marlowe – Burlesque del ’75 in cui i due, nel corso della stessa serata, si scambiavano i ruoli di Faust e Mefistofele. Per lui Giovanni Testori ha scritto una decina di spettacoli, da Verbò, Sfaust, SdisOrè a In exitu, monologo di Riboldi Gino, tossico milanese, che un’ora prima di farsi l’ultima pera in un bagno della Stazione centrale si racconta in dialetto, in latino, in volgare antico, gridando la sua disperazione con una lingua smozzicata, frammentata, dove i suoni risultano più significanti delle parole. Dalla sua voce sono passati i capolavori di Moliére, Calderon de la Barca, i tragici greci, i drammaturghi del Novecento. Il 1° luglio scorso al Teatro Romano di Verona ha portato in scena il perfido e misterioso Shylock nel Mercante di Venezia, titolo d’apertura del festival shakespeariano di quest’anno, produzione del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e del Centro teatrale bresciano de Gli Incamminati.
Ma dopo cinquant’anni di carriera non si è ancora stufato?
«No, il contrario. La vita se ne va, scomparendo pian piano dall’orizzonte. Il palcoscenico è l’unico divertimento che mi resta».
Per un teatrante la vecchiaia è uguale a quella degli altri?
«Dipende. Glauco Mari ha più di 90 anni e continua a recitare, se non recitasse sarebbe già morto. Avere 25 o 90 anni sul palcoscenico non fa differenza. Salvo Randone lo dovevano sorreggere, camminava curvo, strisciava i piedi. Appena entrava in scena diventava un altro. Il teatro è adrenalinico, ti senti importante, vivo se davanti a te ci sono cinquecento persone che applaudono».
Come sta oggi il teatro?
«Male, come tutto il resto. La storia del teatro non la conosce nessuno, neanche voi giornalisti. È come la filatelia, solo gli esperti ne capiscono qualcosa. Oggi il teatro viene confuso con lo spettacolo, la letteratura con i diari personali, il cinema con il successo al botteghino».
Ce l’ha con il “teatro impegnato” o “politico”.
«Il teatro politico sarebbe una cosa seria, non un comizio camuffato, come accade oggi, per cui devo ascoltare quello che dicono, applaudire e sentirmi buono. Il teatro è una forma particolare di conoscenza come la letteratura. Non è andare sul palco per svuotare la propria coppa dell’anima. Chi va a teatro non vuole essere informato sulle disgrazie del mondo. Per questo ci sono i giornali».
I suoi spettacoli migliori?
«Lolita con Luca Ronconi. Il testo non era tratto dal romanzo ma dalla sceneggiatura che Nabokov aveva preparato per il film. Medea, sempre con Ronconi. Pour un oui ou pour un non di Nathalie Sarraute con Umberto Orsini. Io ho fatto spettacoli memorabili, da storia del teatro. Queste cose oggi non si vedono più. Per fare il teatro servono i soldi. Non basta avere un’idea geniale e mettere su due assi sul palcoscenico. Questo lo puoi fare solo se sei Beckett. Ma di Beckett ce n’è solo uno. Oggi per risparmiare mettono a recitare giovani truccati da vecchi».
Il regista con cui è stato più difficile lavorare?
«Nessuno. Se ne trovi uno stupido che ti fa fare una cosa cretina, tu la devi fare bene. Il bello dell’attore è l’obbedienza».
Non è che lei ha la sindrome di Lord Byron che diceva che tutti i tempi, quando sono antichi, sono buoni.
«Ma no, io ho vissuto anni strepitosi, è andato tutto bene: settantotto spettacoli con Ronconi, ho lavorato con colleghi come Leo De Berardinis e, nel cinema, Michelangelo Antonioni e Monica Vitti. Testori ha scritto testi per me. Adesso è il tempo dell’insignificanza. Pure la pubblicità è brutta. Niente a che vedere con quella degli anni ’70, ’80 e ’90».
Neanche a livello di autori salva nessuno oggi?
«Il grande teatro ha bisogno del re perché ha la parola assoluta. È l’unico la cui parola diventa subito azione. Se ti dice che ti taglia la testa, lo fa. Incarna, in un certo senso, la verità. È sempre più difficile scrivere testi teatrali in democrazia. Senza il potere assoluto della parola che diventa azione, il teatro è morto. Pirandello con la metafora dei Sei personaggi in cerca d’autore ha detto che la rappresentazione è impossibile. Beckett ha dimostrato che la parola non produce più azione. Se non si va oltre questi due qui, è finita, si riduce il teatro a comizio politicamente corretto».
Quindi meglio i classici.
«Una volta arrivò uno dal regista Peter Brook dicendogli che c’era un autore bravissimo. E lui: “Ma è al livello di Shakespeare?”. “No”. “Allora facciamo Shakespeare, no?”».
Il suo maggior pregio o difetto?
«Non lo so, a volte un difetto è un pregio e viceversa. L’unica regola etica alla quale mi aggrappo è questa: “Non sarai giudicato per i tuoi errori ma per il bene non fatto”. Il problema è sapere qual è il bene da compiere».
Lei è credente?
«Che parola difficile. Diciamo di sì. Lo scrittore Alberto Savinio, che era fratello di Giorgio de Chirico, diceva che senza Dio si finisce per ascoltare solo le chiacchiere dei vicini di appartamento. Il teatro deve far sentire questa voce».
Una volta ha detto che “non è la sensualità che allontana da Dio, ma l’astrazione”.
«L’incarnazione di Dio in un uomo è una questione molto complicata. Noi nasciamo tutti in un mondo forgiato dai valori cristiani. Anche liberté, egalité e fraternité della Rivoluzione francese sono valori evangelici. La scienza è cristiana perché crede nel progresso. Un marxista pure. Condividono tutti la concezione del tempo come un rettilineo che corre avanti. Alberto Moravia diceva che il cristianesimo ha vinto nei suoi valori, il problema della fede è un altro: credere nell’incarnazione, la resurrezione del corpo, la vita eterna».
La scandalizzano?
«È un mistero, un tunnel dove tutti vacillano. Qui entra in gioco la lotta con il demonio che ci seduce a non credere, a tirarci indietro, a mettere in dubbio tutto. Questa battaglia è la vita vera, non le chiacchiere. Pensare all’epilogo e chiedersi: finirò anch’io o no? I greci dicevano di sì e quindi insegnavano a vivere con misura, senza hybris e colpi di testa. Il cristianesimo con la fede nella vita eterna spinge a cose enormi, allo smisurato, alla follia. Se tu cancelli dall’orizzonte il fatto che sei finito, ti si allarga l’orizzonte, diventi audace e, in un certo senso, più pazzo».
Pensa spesso alla morte?
«Mi ha già aggredito e rovinato, non riesco più a non pensarci. Da giovane mi svegliavo al mattino e sembravo un gatto, felice del sole, della vita, del futuro. Adesso ogni mattina nel dormiveglia mi aggredisce il pensiero che tutto finirà, o forse no, ma per quanto riguarda questo spettacolo sono comunque agli sgoccioli».
Se dovesse dettare un epitaffio per la sua tomba?
«Non ci ho mai pensato. Lascerei in bianco che è meglio».