Cari amici lettori, mi hanno colpito due recenti inchieste sociologiche, realizzate una in Francia e l’altra in Cile, su fede e giovani. Sono contesti non molto dissimili da quello italiano, di avanzata secolarizzazione, con osservazioni valide anche per noi che danno da riflettere su un tema difficile: la generatività. Noi cristiani adulti generiamo “figli” alla fede, dentro la Chiesa? Ne ha fatto oggetto di riflessione specifica ad esempio il teologo Armando Matteo (La Chiesa che verrà e Come riportare i giovani a Messa), ma riguarda anche esperienze interessanti che stanno fiorendo come LabOratorium di don Alberto Ravagnani. L’inchiesta francese si occupa specificamente della trasmissione della fede nelle famiglie cattoliche. Quel che emerge, in rapporto ad esempio alle famiglie ebree e musulmane, è che i cattolici trasmettono la fede in modo piuttosto debole: mentre il 91% delle persone cresciute in una famiglia musulmana e l’84% di quelle cresciute in una famiglia ebraica continuano a ritenersi appartenenti alla religione di famiglia, solo il 67% dei cattolici la conserva.
La pratica della fede (preghiera in famiglia, partecipazione alla Messa, pellegrinaggi, vissuto cristiano…) poi ha un ruolo importante nella “riproduzione” religiosa. Questa sembra avere più successo in famiglie attente a valutare la cultura circostante in cui vivono e a praticare forme di “impermeabilità” verso di essa. A una trasmissione riuscita della fede concorrono la valorizzazione dei riti e la dimensione “totalizzante” della fede (il fatto che impregni tutti gli aspetti della vita di chi la trasmette). Poche pennellate ma che bastano per interrogarci se non siamo stati troppo facilmente “rinunciatari” nella trasmissione della fede (magari con il “motto” «faranno le loro scelte da grandi»).
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: alla seconda generazione la fede è debole, alla terza scompare del tutto. Naturalmente non si tratta di fare crociate o condanne, né di proporre facili soluzioni, ma di riflettere e provare a immaginare vie diverse. L’esperienza anche di molti di noi ci dice che abbiamo “masticato” le prime cose della fede perché qualcuno (la mamma, il papà, la nonna…) ci ha insegnato a fare un segno di croce, a recitare il Padre nostro, a portarci a Messa, a trasmetterci col suo vissuto i valori cristiani in cui credeva.
Questa dimensione familiare, praticata, della fede ha bisogno oggi di essere recuperata, magari in forme nuove. È come un “linguaggio materno” che si trasmette con la vita e con le parole. Ma questo richiede adulti che si interrogano sulla fede, un po’ inquieti, capaci di ascolto e di dialogo con i loro ragazzi sulle cose di fede. Certamente non funziona oggi un’educazione rigida o del tipo “si fa così e basta”, perché trasmette un modello che presto verrà rifiutato. In Amoris laetitia (n. 271) papa Francesco parla dell’educazione morale (diciamo pure religiosa) dei figli: essa «implica chiedere a un bambino o a un giovane solo quelle cose che non rappresentino per lui un sacrificio sproporzionato, esigere solo quella dose di sforzo che non provochi risentimento o azioni puramente forzate.
Il percorso ordinario è proporre piccoli passi che possano essere compresi, accettati e apprezzati, e comportino una rinuncia proporzionata. Diversamente, per chiedere troppo, non si ottiene nulla». Un percorso di piccoli passi, flessibile, realistico, anche per la fede: è questo che ci serve. Sapremo rischiare, sulla fiducia, di gettare ancora le reti?