C’è una modalità di coinvolgere i giovani da parte della Chiesa italiana che ai giovani piace. Perché, appunto, si sentono interpellati. Perché toccano miserie e fatiche, gloria e splendori di quei testimoni del bene, ma anche del male che hanno compiuto un percorso di redenzione. Un male riconciliato e, forse, reso meno amaro dal confronto con le vittime. Lo dimostra il successo dell’incontro che ha costellato una delle tante proposte della Notte Bianca che tra sabato e domenica ha animato numerose chiese di Roma tra il Circo Massimo e il Colosseo.
Nella Chiesa del Gesù, all’incrocio di strade che hanno fatto la storia d’Italia (in via Caetani, a pochi metri, il 9 maggio del 1978 i brigatisti lasciarono il cadavere di Aldo Moro), non c’era un posto libero per ascoltare un dialogo su perdono e giustizia riparativa. A confrontarsi, guidati da don Giordano Goccini, l’ex brigatista Franco Bonisoli, che faceva parte del commando che il 16 marzo 1978 rapì Aldo Moro e uccise gli uomini della scorta, e Giovanni Ricci, figlio dell’appuntato Domenico che quella mattina guidava l’auto dello statista democristiano.
C’è l’aspetto prettamente umano nel racconto di quel giorno senza ritorno che ha cambiato la storia del Paese. C’è Bonisoli che non riesce a dire il numero di proiettili esplosi contro Ricci e si commuove. E c’è il figlio di quell’appuntato, aveva 12 anni, che ricorda di aver aperto l’edizione straordinaria di Repubblica e scoperto che suo padre era morto: «Vidi la foto del cadavere crivellato di pallottole dove non era stato steso neanche un lenzuolo».
Un servitore dello Stato, Ricci. «Ma per noi lo Stato era il nemico, avevamo scelto la lotta armata», racconta Bonisoli davanti a centinaia di ragazzi che pur stremati dalla giornata al Circo Massimo ascoltano con attenzione. Molti di loro, quasi tutti, non erano neanche nati nel 1978. Qualcuno prende appunti e prepara le domande.
«Oggi papa Francesco ha parlato dei sogni della giovinezza. I miei finirono quella mattina», dice Ricci, «i sogni dell’adolescenza sono i più belli ma qualcuno me li ha strappati nella maniera più violenta e crudele possibile». C’è la domanda di Bonisoli che fende il silenzio della Chiesa del Gesù: «Era giusto odiare quelle persone? Era giusto che noi ci considerassimo sempre e comunque nel giusto anche dopo aver ucciso padri di famiglia in nome della rivoluzione?». Il resto è storia che molti dei ragazzi non conoscono, o conoscono poco. Sono quasi un migliaio ad ascoltare in questa Chiesa dove Benigno Zaccagnini e altri politici venivano a pregare e piangere nei giorni del sequestro.
Bonisoli, qualche anno dopo, finisce nel carcere di massima sicurezza a Nuoro. È lì, durante la detenzione, attraverso degli incontri imprevisti, che qualcosa inizia a incrinarsi dentro di lui. Quegli ideali per cui avrebbe dato la vita e per cui aveva tolto la vita a persone innocenti perdono consistenza. Si apre una voragine. Sembra la fine di tutto. Invece, racconta, fu «l’inizio di una seconda vita». Bonisoli è un uomo libero dal 2001. A Nuoro lui e i suoi compagni brigatisti iniziarono uno sciopero della fame per protestare contro la durezza del carcere. Chi li prese sul serio fu un sacerdote, il cappellano, che scrisse al proprio vescovo dicendo che si rifiutava di celebrare la Messa di Natale perché c’erano suoi fratelli che stavano morendo: «ci chiamò proprio così, fratelli», sottolinea Bonisoli.
Gli anni di piombo, la notte buia della Repubblica si riassumono in questa vittima e in questo carnefice fianco a fianco sull'altare di una chiesa in un’afosa notte romana a raccontare il percorso iniziato nel 2008 grazie al gesuita padre Guido Bertagna che così ha spiegato quest'iniziativa: «Abbiamo notato come ci fosse un’analoga e quasi sovrapponibile richiesta da parte di chi veniva dalla storia dei gruppi armati e di chi viveva quella di vittimizzazione e sofferenza. C’era il desiderio che questa sofferenza e la fatica connessa a queste storie non fossero perdute o non rimanessero una faccenda chiusa in un privato sostanzialmente incomunicabile. Le parole che ci venivano dette erano sorprendentemente simili».
Bonisoli e Ricci mettono in chiaro una cosa: non c’è nessun buonismo in questo dialogo che, sottolineano, va avanti da quasi 10 anni. Però loro raccontano e si confrontano, anche in pubblico come in quest’occasione, perché ci sono altre generazioni, come quella che li ascolta, che hanno il diritto-dovere di sapere. E perché c’è un Paese, l’Italia, che ha bisogno di una memoria condivisa. «Ci sono voluti anni per guarire dal dolore», dice Ricci, «i miei parenti non capiscono il percorso che ho compiuto. All'inizio volevo vendicarmi ma incontrare e scoprire che gli assassini di mio padre si portavano addosso una croce grande come la mia mi ha permesso di non vivere più quotidianamente la morte di mio padre, di ricordarlo di quando era vivo e non più solo da morto, di conservare la memoria di una persona e non soltanto di un omicidio».
Bonisoli ricorda che quandò fini in carcere si accorse che «venne meno la ragione della mia vita, la lotta armata, e che era meglio a quel punto suicidarsi». Alcuni ragazzi fanno domande. Il tema li appassiona, e si vede.
Qualche chilometro più in là, a Sant’Andrea della Valle, ci si mette in fila per le confessioni. Affollatissimi anche i due percorsi storico-artistici tra arte e spiritualità: quello nelle chiese paleocristine di Santa Pudenziana e Santa Prassede e quello attraverso le opere di Caravaggio custodite a Santa Maria del Popolo, Sant’Agostino e San Luigi dei Francesi. I sagrati delle chiese aperte si trasformano in dormitorio allegro e colorato, improvvisato soprattutto. A Santa Prisca si riflette sulla figura di don Tonino Bello e il suo “sentiero di pace”, con uno spettacolo dell’artista Stefania Bruno. L’alba è vicina. Direzione San Pietro, ma non solo.