«Come Paesi occidentali possiamo difenderci alzando i livelli di sicurezza, possiamo contrastare il terrorismo con coalizioni politico-militari, ma dobbiamo sapere che il suo sradicamento, nel medio periodo, dipende dall’isolamento e, quindi, dalla battaglia religiosa e culturale che, nei confronti del fondamentalismo terrorista, devono condurre e conducono le comunità islamiche. Per questo è non solo incivile, ma autolesionista indurre nell’opinione pubblica l’idea che i musulmani siano terroristi».
È calmo, ma determinato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Nel suo ufficio alla Farnesina prova a spiegare che «la lotta al terrorismo non è solo un’operazione militare o di intelligence, ma una grande sfida culturale e religiosa, come ci ha ricordato spesso papa Francesco anche con le preghiere comuni che ha fatto».
- La foto diffusa in Rete con la bandiera nera dei terroristi sull’obelisco di piazza San Pietro. Dobbiamo avere paura, come italiani e come cristiani?
«Chi ha responsabilità di Governo, chi si occupa di difesa, intelligence, sicurezza non deve mai sottovalutare i rischi e le minacce. Detto questo, penso che non dobbiamo neanche dare troppa attenzione e sopravvalutare la propaganda del Daesh (acronimo arabo spregiativo di Isis, ndr). È chiaro che è una propaganda che gioca sui simboli e, dunque, per loro, la bandiera nera su San Pietro rappresenta la presunta guerra tra l’islam e il cristianesimo. Ma, naturalmente, è una guerra che il miliardo e mezzo di musulmani nel mondo non vive affatto se non in alcune aree dove il fondamentalismo è pericoloso e radicato».
- Nessuna guerra di religione?
«L’islam è ostaggio di questi terroristi. E noi abbiamo bisogno che la grande maggioranza della comunità politica e religiosa che fa riferimento all’islam, e che è il primo bersaglio dei terroristi, prosciughi l’acqua dove il fenomeno nuota. Non saranno mai gli occidentali a poterlo fare. Nessuna guerra di religione, ma dialogo. È molto importante quello che tanti Paesi e molte autorità religiose islamiche stanno cercando di fare e anche la collaborazione che c’è, in Italia, con le comunità islamiche».
- Intanto i cristiani sono perseguitati in tante parti del mondo.
«Una delle caratteristiche dell’attuale minaccia terroristica è la persecuzione delle minoranze religiose in genere e delle minoranze cristiane, in alcuni contesti, in particolare. I fenomeni sono diversi dall’Iraq, al Pakistan, all’Africa, ma dobbiamo sapere che purtroppo questo è uno degli strumenti di tale lugubre propaganda. Non è un caso che la prima uscita del Daesh in Libia sia stata la strage di cittadini egiziani di religione copta. L’impegno della comunità internazionale dev’essere particolarmente forte nella difesa di queste minoranze. La loro presenza storica è una componente ineliminabile del pluralismo religioso e culturale di questi Paesi».
- C’è chi teme, in Italia, che il terrorismo possa arrivare dal mare, con i migranti. Esclude questa possibilità?
«Nessuno può escludere nulla nel mondo di oggi. Sono possibili provocazioni, infiltrazioni. Quello che non è corretto è promuovere nell’opinione pubblica una identificazione tra il terrorismo e la popolazione dei migranti che fanno migliaia e migliaia di chilometri per sfuggire a situazioni di disperazione, di fame e di guerra. Abbiamo un rischio di utilizzo dei proventi di questo traffico a fini terroristici, ma finora non c’è stato un fenomeno di infiltrazioni. I servizi sono all’erta e non si può escludere il rischio in via teorica, ma la confusione tra terroristi e migranti è, nella migliore delle ipotesi, cattiva propaganda».
- E i jihadisti reclutati in Italia?
«Sappiamo che il fenomeno c’è e va monitorato, anche se i numeri sono inferiori rispetto a quelli degli altri Paesi. Ma non dobbiamo cedere a facili ottimismi, perché purtroppo per realizzare un attentato bastano quattro persone. Dobbiamo mantenere alti livelli di vigilanza e dobbiamo essere consapevoli di avere buone forze di sicurezza che fanno il loro lavoro».
- La Libia è il nodo cruciale nella lotta al terrorismo?
«La questione della Libia è per noi italiani e per l’Europa cruciale per due ragioni che è bene tenere distinte. La prima è che se un Paese così grande rimanesse senza una capacità istituzionale, questo allargherebbe le potenzialità di diffusione del terrorismo. E siccome questo grande Paese è un Paese vicino all’Europa, è una minaccia per tutti. La seconda è che, sempre per la mancanza di istituzioni statali, la Libia è diventata una specie di collo di bottiglia in cui confluiscono una parte dei migranti e rifugiati delle diverse aree di crisi, in particolare dal Corno d’Africa, dalla Siria e dall’Africa centrale. Sia il rischio di diffusione del terrorismo che il controllo dei flussi migratori irregolari richiederebbero una Libia pacificata e con istituzioni condivise. Questo è lo sforzo che stanno facendo le Nazioni Unite e che l’Italia sostiene fortemente».
- La Tunisia può diventare un modello di democrazia per gli altri Paesi dell’aerea o è un unicum?
«È difficile paragonare Paesi come la Tunisia a uno con le dimensioni e la popolazione dell’Egitto, per esempio. Non credo però neanche che resterà un unicum, nel senso che la dinamica di una spinta alla modernizzazione di queste società, al rifiuto di antichi regimi che da decenni controllavano quei Paesi, alla diffusione di una classe intellettuale giovane che utilizza molto anche i social network, a mio parere è una tendenza che non si limiterà a un solo Paese anche se avrà traduzioni e tempi diversi nelle diverse realtà».
- Lei è appena tornato dalla Tunisia. Qual è l’impegno dell’Italia?
«L’Italia è il secondo partner commerciale, ed è stata molto presente in questi mesi. È stato il primo viaggio all’estero del presidente del consiglio, che è tornato anche domenica scorsa. Io ci sono stato due volte nelle ultime tre settimane. Stiamo collaborando su molti fronti. Ricordiamo che, sul piano delle migrazioni, alla crisi del 2010, è subentrata una gestione condivisa e di grande efficacia. Continueremo sicuramente a collaborare».