Uno degi episodi più recenti è quello di una preside a Cuneo che ha sospeso 300 studenti perché avevano postato sui social foto di compagni e insegnanti con insulti, minacce e allusioni sessuali. Ma le cronache sono piene di racconti di questo tipo. La Dad non ha fatto che aumentare le occasioni per un uso sbagliato degli strumenti e, mentre si avvicina il tempo delle vacanze – del vacare per eccellenza –, il rapporto dei giovanissimi con la Rete non può non destare preoccupazione. «La punizione deve sempre essere accompagnata dall’educazione» è il commento alla scelta della dirigente piemontese di Ivano Zoppi, segretario generale di Fondazione Carolina, che porta il nome della prima vittima di cyberbullismo in Italia, nata per raccogliere la sfida di suo padre, Paolo Picchio, e per aiutare i ragazzi che, sempre più in tenera età, si fanno del male tra loro usando il Web in maniera distorta e inconsapevole.
«Dal primo lockdown, Fondazione Carolina riceve richieste di supporto per l’aumento di cyberbullismo anche nei confronti degli insegnanti. I genitori vanno informati, ma ancora prima devono essere coinvolti in un percorso continuo e integrato assieme agli studenti. Il problema non è la didattica a distanza, come pure Internet e i social network, ma l’assenza di vigilanza e accompagnamento all’uso di questi strumenti che abbiamo messo al centro delle nostre vite con troppa superficialità».
Da questa urgenza è nato Get Digital, programma internazionale per la cittadinanza digitale e il benessere ideato da Facebook (che è anche Messenger, Messenger, Instagram e WhatsApp) e che in Italia ha come partner Fondazione Carolina. «È il primo passo di una delle aziende che si occupa di social verso la condivisione della responsabilità», continua Zoppi. «Un passo importante, quello di mettere insieme materiali gratuitamente fruibili dal sito per tutte le età e per tutti coloro che si occupano dell’educazione dei ragazzi». Perché questa alleanza? «Perché si sta abbassando troppo l’età della frequentazione dei social. È necessario che le aziende si siedano allo stesso tavolo di chi, come Fondazione Carolina, quotidianamente vive con i ragazzi. Il problema non è quando c’è il caso, ma la quotidianità. Cosa fanno tutti i giorni i nostri figli, cosa condividono su quelli che restano sempre strumenti?».
Perché c’è un disagio e i numeri lo raccontano: «Siamo passati dalle 50 segnalazioni mensili a 300. In primis, manca il controllo da parte dei genitori. Dove sono? Siamo in periodo di comunioni: quando decidiamo di regalare lo smartphone a un bambino di 9 anni cosa pensiamo? “Ce l’hanno tutti”, oppure: “Tu non farai mai cose che degenerano”? I ragazzi hanno il mondo nella tasca dei jeans. Ma abbiamo davvero abdicato al nostro ruolo educativo? Sempre più serve una presa di coscienza dei genitori. I giovani si responsabilizzano quando hanno davanti un adulto responsabile. E poi, quanti incontri si fanno nelle scuole come Fondazione, ma sta davvero cambiando qualcosa? Il punto è creare coscienza degli strumenti, perché da lì deriva la responsabilità».
Ecco perché anche sul sito di Famiglia Cristiana, in occasione dell’estate, è stato aperto uno sportello per una gestione corretta, educata e sicura dei social, dove mandare dubbi e perplessità, situazioni problematiche e farsi consigliare nell’ambito del progetto Get Digital dagli esperti di Fondazione Carolina. «Abbiamo la mail rescueteam@fondazionecarolina.org dove ricevere segnalazioni e avere risposte da un team interdisciplinare di pedagogisti, psicologi, avvocati ed esperti di comunicazione. All’occorrenza collaboriamo anche con le forze dell’ordine. Gratuitamente sempre. Papà Picchio è il motore del nostro operato, colui che da una tragedia ha fatto nascere una scelta di vita: accompagnare i ragazzi e la comunità educante per evitare che si ripetano storie come quella di sua figlia Carolina. Solo quest’anno nelle scuole abbiamo fatto 170 incontri con 33 mila ragazzi in nome del fatto che, come dice sempre Paolo Picchio, “un abbraccio vale più di mille like”». Un augurio per l’estate? «Tornare a sbucciarsi le ginocchia, giocare e incontrarsi. Vivere le esperienze prima di postarle. In una battuta, direi meno social e più socialità».