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martedì 25 marzo 2025
 
Dopo tutto, di Monica Mondo
 
Credere

In questi tempi bui, fare buona politica è un dovere cristiano

13/03/2025  Di fronte all’affermarsi di posizioni inquietanti anche nella leadership americana, stare a guardare è una colpa

Molti hanno postato il discorso del vicepresidente Usa J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco. L’ho letto, con preoccupazione e disagio.

Giustamente richiama la ritirata dell’Europa dai suoi valori fondamentali: le condanne agli attivisti antiabortisti, ad esempio. Giustamente chiede sicurezza e contenimento dell’emigrazione fuori controllo. Molti poi hanno postato il suo discorso al National Catholic Prayer Breakfast di Washington. Dove spiega cosa significa per lui essere un cattolico convertito nella vita pubblica, parla con gioia della richiesta di battesimo di suo figlio, con dolore della persecuzione dei cristiani.

Dice che prega per il Papa, parla di grazia, del suo essere un cristiano imperfetto, ma di perseguire il bene comune. Aumenta il disagio, perché come dargli torto? Ma permane il senso di una stonatura. Perché difendere i bambini nel ventre materno e deportare gli immigrati al muro col Messico stona. Perché invocare la pace e aggredire con sprezzante violenza il presidente stremato di un Paese in guerra stona. Perché la pace senza la giustizia e la verità non esiste e Vance ha mentito, come il suo presidente.

Viene in mente la definizione di pace che Tacito mette in bocca al re dei Caledoni, aggredito dal potere di Roma: «Fanno il deserto intorno e lo chiamano pace». So che De Gasperi andava a Messa tutti i giorni, come pure Andreotti. So che Schumann aveva una fede limpida ed è in corso la sua causa di beatificazione, come per lo statista italiano. Ma nessuno ha giudicato le loro politiche contando il numero di preghiere e le volte in cui si recavano al confessionale.

La distinzione tra città di Dio e città degli uomini è dottrina dai tempi di Sant’Agostino, fedeli alla parola di Gesù «a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio». E anche a quel «non chi grida Signore Signore…».

C’è da ragionare allora su cosa significhi essere un leader quando si è uomini di fede. La parola leader non mi piace, sapore troppo trumpiano oggi. Cosa significa essere autorevoli, casti (cioè integri, non “puri”) facendo politica, perché ce n’è bisogno, perché mancano personalità cattoliche coraggiose, pronte a mettere le mani in pasta, a operare per il bene comune. Ce ne sono, ma non parlano con autorità, non sono punti di riferimento, non illuminano la strada. Ogni tanto puntano con buona volontà scuole di politica per giovani cattolici, che poi i partiti ignorano; si affittano conventi per riunioni di corrente, più che per educare all’impegno e lanciare nuovo protagonismo.

Per troppi decenni la politica ha significato potere e basta, per troppi anni è sembrata una cosa sporca, con l'ipocrisia dei farisei che non toccavano il denaro, ma appoggiavano chi lo estorce al popolo. Si è confusa l’umiltà con l’umiliazione, dimenticando il compito di essere sale non scipito, di essere lampada non sotto il moggio. I talenti sono un dono e vanno coltivati, perché Dio ce ne chiederà conto. Non basta schermirsi, dicendo no a tutto, ritirandosi in sacrestia per salvarsi l’anima. Oggi più che mai all’avanzare di potenze oscure c’è bisogno di una presenza leale, audace e limpida, secondo il magistero della Chiesa. Stare a guardare è una colpa.

(Immagine in alto: J. D. Vance, foto ANSA)

In collaborazione con Credere

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