Cari amici lettori, è uscito qualche giorno fa, il 9 novembre, il Messaggio dei vescovi italiani per la 34a Giornata per l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, che avrà luogo – come ogni anno ormai dal 1989 – il prossimo 17 gennaio. Si intitola Uno sguardo nuovo (Isaia 40,1-11). Il documento trae alcuni spunti di riflessione dal passo di Isaia citato nel titolo, interrogandosi «sulla nostra presenza nella società come uomini e donne credenti del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe»; dall'annuncio di consolazione per il popolo fatto dal profeta invita ad avere fiducia nel futuro, perché Dio è fedele e ci supera; nonostante le fragilità e il rischio di rassegnazione, Dio invita il profeta a gridare; si sottolinea la “tenacia” di Dio nel suo amore e si invita ad aprire gli occhi per «trovare il Signore là dove sta operando». Una riflessione, a partire dal testo profetico, “ascoltabile” per ebrei e cristiani. Al di là del contenuto del Messaggio, mi sembra importante soffermarci a riflettere su che cosa significa per noi cristiani il rapporto con i nostri fratelli ebrei.
Il concilio Vaticano II, a partire dal decreto Nostrae aetate (1965), ha cambiato definitivamente il nostro sguardo sull'ebraismo, voltando finalmente pagina dopo una storia millenaria di ostilità e persecuzioni. Il decreto dedica un solo numero (il 5) all'ebraismo, ma con affermazioni di grande sostanza, a partire da quella iniziale: «Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo». Ricorda inoltre che, oltre a Cristo, «dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo». Papa Francesco, in Evangelii gaudium (n. 247) ci ricorda che con l'ebraismo «la Chiesa condivide una parte importante delle Sacre Scritture, considera il popolo dell'Alleanza e la sua fede come una radice sacra della propria identità cristiana». Insomma con i fratelli ebrei i cristiani hanno un rapporto speciale. In questo senso colgo dall'impostazione del Messaggio uno spunto concreto anche per noi: un più attento ascolto delle parole del Primo Testamento (che noi solitamente chiamiamo “Antico”, con il rischio di squalificarlo).
È lo stesso Dio, «di Abramo, Isacco e Giacobbe», che parla nei due Testamenti. Il Primo Testamento è parte integrante della Rivelazione. Viene in mente l'inizio della Lettera agli Ebrei (1,1-2): «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio». Certamente per noi Gesù è la Parola ultima e definitiva di Dio per gli uomini, ma questo non cancella le altre parole che Dio ha detto in precedenza «molte volte e in diversi modi». Un mondo spirituale ricchissimo, se solo abbiamo la pazienza di scoprirlo. Come non pensare alla storia di Abramo e alla sua fede, a Mosè «l'amico di Dio» che gli parla «faccia a faccia» e intercede per il suo popolo quando cade, a Davide l'unto del Signore con i suoi alti e bassi, ma il cui cuore è secondo Dio? E alle esortazioni e denuncia dei profeti (tante attualissime anche oggi), alle parole dei sapienti, a quello scrigno di preghiere che sono i Salmi?
Tutto questo è patrimonio comune a ebrei e cristiani, da conoscere, meditare, pregare. Ne guadagneremmo molto anche per apprezzare di più Gesù Cristo e il suo Vangelo.