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martedì 17 settembre 2024
 
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Libero Grassi, storia di un uomo libero

14/01/2018  Il 29 agosto del 1991 in via Alfieri a Palermo moriva Libero Grassi. Non era un poliziotto, un magistrato, un uomo delle istituzioni. Era un comune cittadino, che la mafia temeva per la sua libertà e la sua dignità.

Libero Grassi non portava le insegne delle istituzioni di Piersanti Mattarella, non portava sulle spalle la toga di Rocco Chinnici, di Rosario Livatino, Antonio Saetta, di Antonino Scopelliti e nemmeno la divisa del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e di Ninni Cassarà.

Libero Grassi aveva soltanto la sua dignità di cittadino. E’ morto per quella , il 29 agosto 1991, in una Palermo in cui anche i civili, soprattutto i più civili, erano bersagli di una guerra che aveva alzato il tiro contro le regole, anche se le macerie peggiori quelle di Capaci, Via D’Amelio, del Velabro, dei Georgofili, di via Palestro dovevano ancora venire. Libero Grassi faceva l’imprenditore e al giogo che teneva sotto tanti aveva detto di no: era Libero di nome, prentendeva di esserlo di fatto e davanti a tutti.

Non solo rimandò al mittente la richiesta del pizzo ma rispose pubblicamente in una lettera al Giornale di Sicilia. Così: «Caro estortore, volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere… Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui». (Libero Grassi, Giornale di Sicilia del 10-01-1991).

Di lì a poco accettò l’invito di Michele Santoro a Samarcanda, andò a ripetere le cose che vedeva dall’osservatorio della sua azienda a conduzione familiare, la Sigma, un’azienda sana che non voleva dare in mano a chi gliel’avrebbe succhiata a poco a poco con la scusa di un indebito aiuto estorto in favore dei “poveri amici carcerati”, per pagare le spese legali dei “picciotti chiusi all’Ucciardone”. Libero Grassi faceva pigiami, calzini, biancheria. Dava lavoro, onesto. Esportava. Voleva continuare a farlo per rispetto di sé stesso e del nome che portava. Il maxiprocesso era in corso e solo un anno e qualche mese dopo Cosa Nostra, che per troppi e anche per qualche tribunale non esisteva, sarebbe stata scolpita in una sentenza definitiva.

Libero Grassi camminava libero per strada quel mattino del 29 agosto 1991, andava a piedi al lavoro provando a scrollarsi dai sandali lo scirocco dell’estate palermitana, l’ha ucciso una pallottola in via Alfieri. Erano passati sei mesi e rotti dalla sua denuncia pubblica ed era rimasto, famiglia a parte, solo davvero. C’è voluta la sua morte perché nascessero Fai, Libero Futuro, le associazioni che aiutano gli imprenditori che denunciano e AddioPizzo una rete di commercianti “pizzo free” e di consumatori critici. Perché il velo che aveva squarciato costringesse il mondo a guardarci dentro. Ma la storia insegna che c’è ancora molto da fare.

Libero Grassi ha una figlia Alice che gli somiglia come una goccia d’acqua e che nel 25° della morte ha raccontato:  «Mio padre non è stato ucciso perché non dava i soldi alla mafia ma per la sua denuncia pubblica. Si sa dalle intercettazioni che il motivo è questo e che non tutti erano d'accordo, è stata una decisione autonoma del clan Madonia. Chi comincia oggi l'attività imprenditoriale non è costretto a scendere a patti con la mafia. Nella Palermo di 25 anni fa l'80% pagava e questo non piaceva certo a tutti. C'era un accordo, pagare tutti per pagare meno e non bisognava rompere gli equilibri, mio padre li ha rotti. Anche oggi la nostra famiglia non ha voglia di protagonismo. Abbiamo detto no per tanti anni ma quando mio figlio che ha vent'anni, mi ha raccontato che i suoi amici di scuola non sapevano nulla del nonno ho capito che alcuni fatti erano diventati storia ed era giusto farli conoscere. Mi auguro che Rai e Mediaset diano questo materiale alle scuole. Dover ricordare sempre persone uccise è molto triste. Dobbiamo imparare a fare qualcosa perché questa gente per bene non muoia. La cosa fondamentale è avere appoggio e sostegno dai cittadini quando si è vivi. In un paese corrotto non funziona nulla e ci stupiamo che crollino le case con i terremoti».

A portare avanti l’impegno e la memoria di Libero Grassi fino al giugno 2016 c’era Pina, la moglie di Libero, libera come lui.  C’è una sola cosa che si possa fare, come istituzioni e cittadini, per non tradirli: continuare l’impegno alla memoria di quelli come lei e non lasciare soli quelli come lui.  

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