«L'indissolubilità del matrimonio? Credo che possiamo dire che il matrimonio, civile o religioso che sia, appare un po’ “fuori moda” oggi per i nostri contemporanei. La novità, forse, è che lo sta diventando anche per le persone che si sposano in chiesa». Alla provocazione Mariolina Cerotti Migliarese, neuropsichiatria infantile e psicoterapeuta esperta di relazioni familiari, non fa una piega e conferma quello che è sotto gli occhi di tutti: parlare di un amore “per sempre” oggi appare ai più come un’utopia. La professionista - autrice di due libri intitolati significativamente “La famiglia imperfetta” e “La coppia imperfetta” (edizioni Ares), nonché sposata da 40 anni, madre di sei figli e nonna - terrà una relazione sabato 19 gennaio presso la Parrocchia del SS. Redentore a Milano (Via Palestrina, 7 alle ore 9) insieme al moralista don Aristide Fumagalli (v. pdf allegato) proprio sul tema dell’indissolubilità del matrimonio. Un tema che sta molto caro alla chiesa, “esperta di umanità” come amava dire Paolo VI. A lei abbiamo rivolto alcune domande in vista dell’appuntamento.
Dottoressa, cosa condiziona oggi la "liquidità" dei rapporti affettivi?
«Se il senso del matrimonio e della sua definitività oggi viene malinteso è perché c’è stato una specie di capovolgimento dei termini del problema: invece che essere consapevoli che se si condivide un’unione su basi di stabilità questo determina un benessere reale, si pensa invece che il legame sia permesso solo dalla presenza di un benessere soggettivo. Stare insieme e starci bene, insomma, non è più visto come la conseguenza e il frutto di un impegno che dura nel tempo, ma come un prerequisito senza il quale non si sta nella relazione».
Questo emerge anche dalla pratica clinica?
«Certamente. Sempre più coppie condizionano il loro stare insieme dallo… stare bene assieme; la situazione è, come dicevo, capovolta rispetto a un tempo: queste coppie non cercano più di costruire la relazione, con serietà e impegno, per costruire passo dopo passo lo “stare bene assieme”. La relazione quindi “deve” dare certi frutti costanti nel tempo altrimenti si rompe. È un fenomeno che si è andato imponendo negli ultimi anni».
Ma cos’è allora il matrimonio, dal punto di vista di uno psicologo?
«È un patto che si gioca intorno al corpo, direi che è un’amicizia sessuata. Se si svilisce il valore del corpo e del suo valore unico, se non si pensa che esso non è una merce di scambio ma il senso stesso della persona, della sua individualità, allora cade tutto».
Qual è il punto determinante di questo cambiamento di ottica?
«Non è un problema, per così dire, “patologico” ma una modificazione dei significati profondi legati a una lettura diversa della realtà. Occorre proporre una lettura antropologica del fenomeno dando il giusto significato al corpo: è qualcosa che si “ha” o che si “è”? Che legame insomma esiste tra corpo e identità? E poi: il sesso è un attributo generico, come essere alti o bassi, o è una specificazione dell’identità? E, ancora: in che modo pensiamo alla relazione con l’altro? Ha lo scopo di farci felici oppure ognuno la persegue personalmente ed è responsabile personalmente e non in solido di dare senso alla relazione stessa? Non dando più il compito al proprio partner di farci felici, ci si accompagna anche magari per molto tempo ma senza pretendere nulla dall’altro».
Dunque, sto con l’altro solo perché mi fa stare bene?
«Esattamente. Così perde di significato il matrimonio, a cui si attribuisce ormai solo un senso formale. Per questo si sceglie la convivenza. Ma anche l’idea di amore è molto cambiata: nell’ottica comune dovrebbe essere un eterno innamoramento, in grado di produrre emozioni continue. Altrimenti non vale più la pena di investirci su».
E i giovani cosa ne pensano?
Veniamo ai giovani. Sono cambiati loro in relazione al matrimonio?
«Non credo. I ragazzi hanno, oggi come ieri, un infinito desiderio di amore. Il “per sempre” è un desiderio naturale dei giovani: la differenza è che oggi sentono una grande sfiducia verso le situazioni definitive a causa di quello che vedono intorno a sé, cioè le molte situazioni di coppia che non reggono. Quello che è difficile far capire loro è che l’amore non è solo emozione».
Di qui l’aumento delle convivenze?
«La convivenza diventa per i giovani un fatto di onestà intellettuale: meglio promettere che ti vorrò bene finché ci riesco piuttosto che promettere qualcosa che fanno fatica a concepire. È un fraintendimento del significato del “voler bene”, che non è una costante emozione, come dicevo prima, ma una costruzione fatta insieme e pensata come scelta definitiva».
Dove vede la causa di questa tendenza?
«La nostra società valorizza l’emotività piuttosto che il pensiero. I giovani sono più sollecitati da stimoli sensoriali che da un pensiero profondo, riflesso a lungo, al limite sofferto. Hanno poi davanti a sé un modello incentrato fondamentalmente sull’io, per cui faccio ciò che mi fa stare bene sul momento. Non riescono quindi a immaginare avvincente un rapporto lungo: esso appare a loro noioso. Occorre tener conto anche del fatto che oggi tendono a costruire relazioni simbiotiche, simili a quelle che si instaurano tra mamma e bambino. Sono rapporti di reciproca dipendenza, che difficilmente portano a una maturazione personale. La relazione dentro la coppia che tiene nel tempo invece è quella di due persone che sono capaci di stare da sole, hanno le loro identità e decide di condividere una relazione con l’altro».
Quali vantaggi psicologici presenta invece la prospettiva dell'indissolubilità?
«Solo se vivi una relazione vissuta senza limite di tempo ti senti protetto e acquisisci una maggiore consapevolezza di te stesso. All’interno di una relazione fiduciaria, ognuno di noi può scoprire se stesso in modo diverso. Qui viene in gioco l’intimità: che non significa, come si intende oggi, la dimensione sessuale ma qualcosa di profondamente mio che io affido all’altro perché so che proteggerà l’intimità di me stesso, un qualcosa di prezioso che gli affido. Insomma, possiamo affidarci l’uno all’altro perché sappiamo che ne trarremo comuni vantaggi».
I figli delle coppie divorziate sono svantaggiati nel costruire relazioni solide?
«Crescere dentro relazioni provvisorie fa crescere la sfiducia sul fatto che le promesse vengano rispettate. I bambini hanno grande capacità di adattamento alle condizioni di vita e danno per scontato l’ambiente che trovano, traendone il meglio, anche in situazioni molto confuse. Ma è decisamente uno svantaggio crescere dentro a un contesto di provvisorietà. I figli delle coppie che tengono nel tempo invece generalmente imparano cosa significa ricucire i rapporti, fare la pace. La realtà è imperfetta ma si può riparare chiedendosi reciprocamente scusa. In genere la famiglia che tiene è quella che compone il conflitto».
Il presente del matrimonio è tutto così negativo?
«Credo di no. Penso infatti che i tempi oggi siano favorevoli perché si può far ripartire il matrimonio per quello che è. In passato - è vero - non ci si separava ma spesso il matrimonio era un contenitore formale. Esisteva una reale disparità tra l’uomo e la donna e nella relazione con i figli i ruoli familiari erano molto diversi tra madre e padre. Oggi invece viviamo in una transizione verso una reale parità tra uomo e donna e vediamo sempre più papà che esprimono cura e tenerezza verso i figli. Direi, per semplificare, che una volta esisteva il matrimonio come “cornice” di contenuti spesso latitanti. Oggi abbiamo al contrario i contenuti ma manca la cornice. Le due cose dovrebbero andare insieme. Non bisogna insomma rimpiangere il passato come un tempo migliore ma costruire con fiducia a partire dalle opportunità dell’oggi».