Cari amici lettori, nel suo viaggio in Congo e Sud Sudan, che vi raccontiamo alle pagine 6-11, papa Francesco, parlando ai vescovi del primo Paese africano visitato, ha ricordato un vescovo congolese, Christophe Munzihirwa (1926-1996, nella foto), conosciuto come il “Romero del Congo”. Vale la pena ricordarne la figura. Munzihirwa, un gesuita come papa Francesco, dopo essere stato superiore provinciale dei Gesuiti dell’Africa centrale tra il 1980 e il 1986, fu nominato vescovo, prima a Kasongo, nel 1986, e quindi a Bukavu, nel 1994. Qui si trovò ad affrontare uno dei momenti più turbolenti della storia del Paese.
Erano gli anni del genocidio del vicino Ruanda, con migliaia di profughi che si riversavano nella confinante provincia congolese del Kivu Sud e miliziani del Fronte patriottico ruandese che imperversavano di qua dalla frontiera. In questa situazione totalmente fuori controllo, visse il periodo più intenso del suo ministero episcopale, visitando instancabilmente i campi profughi della sua diocesi, adoperandosi in ogni modo per la riconciliazione tra le varie etnie e denunciando senza sosta alle autorità internazionali la situazione catastrofica che si era venuta a creare e la corruzione che dominava nella classe politica e tra le fila dell’esercito. Alla fine, rimasto l’unico punto di riferimento in una città allo sbando, pagò con la vita per il suo impegno: fermato da soldati del Fronte patriottico ruandese, fu torturato e infine giustiziato brutalmente. Papa Francesco lo ha ricordato come un «pastore coraggioso e voce profetica, che ha custodito il suo popolo offrendo la vita».
È quello che accade al profeta se obbedisce a Dio: «Quando secondo Dio alziamo la voce, rischiamo», ha detto il Pontefice, tratteggiando la figura del vescovo sullo sfondo di quella di Geremia, profeta in tempi di sconvolgimenti politici e sociali. Francesco ha ricordate la testimonianza di fede di Munzihirwa con le sue parole dette il giorno prima della morte: «In questi giorni che cosa possiamo ancora fare? Restiamo saldi nella fede. Abbiamo fiducia che Dio non ci abbandonerà e che da qualche parte sorgerà per noi un piccolo bagliore di speranza. Dio non ci abbandonerà se noi ci impegniamo a rispettare la vita dei nostri vicini, a qualsiasi etnia essi appartengano».
Pastore dalla vita sobria (si dice che avesse solo un paio di cambi di vestiti), ha preso su l serio la sua missione, non cedendo a interessi di parte, compromessi, quieto vivere: un monito anche per noi, esempio di un cristiano dalla schiena dritta di fronte alle mafie e a qualsiasi tipo di corruzione. Aveva imparato a vedere la vita dalla prospettiva degli ultimi: «Ci sono cose che non si vedono bene se non con occhi che hanno pianto», diceva.
I suoi occhi avevano visto e il suo cuore aveva imparato a “com-patire”. Oggi è in corso il processo di beatificazione. Un esempio luminoso di cosa significa impegno evangelico per la giustizia. Perché la fede non è una cosa astratta, sganciata dalla quotidianità, ma vive nelle vicende della storia. Il rischio peggiore per i cristiani non sono tanto i “peccati” ma la tiepidezza, l’indifferenza, il girarsi dall’altra parte rispetto ai bisogni del prossimo e all’ingiustizia. Insomma, come diceva Bonhoeffer, il teologo martire del nazismo: «Chi non alza la voce per gli ebrei, non può cantare il gregoriano».