Il tema dell’insignificanza dei cattolici sullo scenario politico posto da Dario Antiseri da alcuni anni alimenta un dibattito che sembra non avere soluzione. Quello che è mancato in questo tempo è la consapevolezza di una identità, col risultato di subordinare le idealità alle formule e alle alleanze. All’indomani della sconfitta elettorale del Partito popolare italiano, il 27 aprile 1994, non ci fu un’attenta analisi delle conseguenze in cui si sarebbe potuto incorrere saltando sul carro del vincitore senza una capacità di incidere sul progetto politico. Emilio Colombo, al congresso del Ppi, denunciò con lucidità il pericolo. "I settori del mondo cattolico che in questo periodo, di fronte alle difficoltà delle scelte ci invitano al berlusconismo", disse, “dimostrano di aver dimenticato le lotte che, dalla metà del secolo scorso e a tutto questo secolo, i cattolici hanno affrontato, non per garantire questo o quel pur nobilissimo interesse, ma per contribuire al ‘bene comune’ di tutta una Patria italiana derivandone forza e ispirazione dalla loro visione cristiana e dalla dottrina sociale della Chiesa”.
Di quella storia, di quelle lotte il Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo prima, la Democrazia cristiana dopo erano stati artefici e protagonisti, ma, soprattutto, di una originalità che andava preservata e nutrita con i succhi della sapienza del Vangelo e della testimonianza autentica. “Bisogna entrare nella vita pubblica con una concezione nostra, un sistema nostro”, tuonava nel 1925 Igino Giordani in Rivolta cattolica. E irrideva i cattolici che saltano sul carro del vincitore. “Il cattolico, savio per antonomasia – scriveva –, ha da rimanere nel bosco, curarsi la salute; poi quando vede sicuro il successo altrui, allora s’intruppa dietro il cocchio trionfale, scrive e recita il suo epinicio, fa inchini e piroette per ingraziarsi il forte. Il forte ha sempre ragione, ha sempre Dio dalla sua parte”.
Dietro quelle scelte c’era la complice acquiescenza di un clero del tutto incapace di indicare un orientamento, un argine alle incongruenze, ma piuttosto desideroso di affrancarsi dalla mediazione del laico e dei partiti, per maturare un contatto diretto col vincitore.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: oggi i cattolici sono al soldo dell’uno e dell’altro schieramento, insignificanti tanto nel centrodestra quanto nel centrosinistra. Gli sporadici tentativi di cercare via unitarie, Todi compreso, hanno preso atto dello stato di fatto. Manca ai cattolici non solo l’unità, ma, soprattutto, un’idea per il futuro del Paese. Pochi, in occasione del settantennale, hanno riflettuto su cosa ha significato il ‘Codice di Camaldoli’ per l’Italia. “Solo se siamo uniti – diceva Alcide De Gasperi –, siamo forti; se siamo forti siamo liberi di agire, possiamo sviluppare il nostro piano di rinnovamento, convogliare le forze costruttive della nazione, scegliere i nostri compagni di viaggio per libera volontà, per affinità di tendenza, per comunanza di programma di azione, per una comune associazione di interessi, per una visione comune di riforme”. Ma questa è una storia di cui difetta la memoria.