Ogni parroco sa bene quanto sia difficile gestire la comunicazione all’interno dei consigli pastorali o negli incontri dei catechisti o in quelli per organizzare feste patronali e prime comunioni. Occasioni che si trasformano in momenti di grande tensione, dove facilmente ci scappa la parola di troppo che segna il clima della comunità per lungo tempo: certe parole non si dimenticano!
In un tempo della Chiesa in cui parliamo molto di sinodalità e in cui aumentano le occasioni di confronto, potrebbe essere utile fermarsi a riflettere sul nostro modo di comunicare e di affrontare i dibattiti. La presenza di un moderatore riconosciuto e capace è sicuramente di grande aiuto: è necessario che ci sia qualcuno che abbia autorevolezza e che non soccomba alle tensioni, ma sia capace di non fare alleanza con una parte sola dell’assemblea, cercando di rendere possibile la partecipazione di tutti. In queste occasioni di discussione le persone comunicano infatti secondo le loro modalità personali solite.
Le persone più miti hanno un modo di comunicare per lo più passivo, ma che non aiuta a crescere: c’è il rinunciatario («per me va bene qualunque cosa»), il pacifista («l’importante è che ci vogliamo bene»), il pigro («tanto io non ci sono»).
Dall’altra parte ci sono invece quelli che hanno uno stile aggressivo di comunicazione: non ascoltano gli altri, pretendono sempre di avere ragione, sono convinti che le loro idee siano sempre le migliori, talvolta umiliano quelli che non la pensano come loro. Apparentemente vincono la battaglia, ma in realtà sono destinati a rimanere soli e rovinano l’ambiente in cui hanno deciso di affermarsi.
Una modalità molto pericolosa da gestire è quella delle persone che potremmo definire aggressivo-passive: sono persone che non riescono a essere in contatto con la propria rabbia e la consegnano agli altri, dicendo cose molto gravi e dure, con un tono di apparente mitezza. La modalità comunicativa cui dovremmo cercare di giungere è invece quella assertiva, propria della persona libera, che sa ascoltare, ma chiede anche di essere ascoltata; prova a capire l’altro, ma porta anche le proprie ragioni; fa in modo che la conversazione rimanga sul tema e non sfori o divaghi in altro; sa eventualmente riconoscere anche la propria parte di errore e non pretende di essere sempre nel giusto. Forse in questo cammino sinodale, possiamo esercitarci anche sulla nostra modalità di comunicare, senza dare per scontato che ne siamo capaci.