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La terra tremò di sera, alla 21. Faceva caldo, una serata afosa, strana per quel 6 maggio 1976 sulle montagne del Friuli. Il sisma sfiorò il nono grado della scala Mercalli che allora si usava per misurare l’entità dei terremoti. Voleva dire distruzioni quasi totali con moto insieme sussultorio e ondulatorio. Il terremoto in Friuli fa devastante. Interi paesi furono rasi al suolo. Nell’epicentro, poco lontano da Gemona, la devastazione impressionante. Il Gazzettino, quotidiano di Venezia, due giorni dopo intitolò a tutta pagina “Fu Osoppo”. Osoppo insieme a Gemona, ad Artegna, a Venzone ballò sull’epicentro e le case crollarono quasi per intero.
Il sisma devastò un area di 5.500 chilometri quadrati tra le provincie di Udine e Pordenone. Il bilancio sarà di 989 morti, 40.000 sfollati, 20.000 abitazioni distrutte e quasi 80.000 danneggiate. Non c’era la Protezione civile, non c'erano le colonne pronte ad intervenire per l’emergenza. Le comunicazioni furono tenute in piedi dalla rete dei radioamatori. E fino al mattino del 7 maggio non ci si rese conto dell’entità della tragedia. Aldo Moro, presidente del Consiglio d’accordo con Francesco Cossiga, ministro dell’interno, nominò commissario straordinario Giuseppe Zamberletti. E così arrivò lo Stato. Ma da subito i soldati dell’Esercito, che avevano avuto 32 morti e 240 feriti nel terremoto, in particolare gli alpini della Julia, insieme ai volontari arrivati da tutta Italia e ai giovani locali cominciarono a scavare a mani nude senza aspettare.
I gemellaggi tra diocesi
La Caritas italiana, nata da appena cinque anni, fece la prima riunione d’emergenza il giorno dopo il terremoto a Venezia, con monsignor Giuseppe Pasini e alla presenza del patriarca Albino Luciani. Nacquero allora i gemellaggi i centro di comunità, la solidarietà tra le Chiese, diocesi che aiutavano parrocchie. Furono 80 i gemellaggi. La Chiesa fu sempre in prima fila nell’aiuto e poi nella ricostruzione, insieme al vescovo Alfredo Battisti, il vescovo del terremoto, colui che disse «prima le fabbriche, poi le case e poi le chiese», inventando inconsapevolmente il “modello Friuli”, la ricostruzione buona, che si voleva “come era e dove era”. Fu un’azione unitaria, tutti insieme, con il controllo costante della popolazione, riunita in comitati sotto le tende, come si era abituati a fare da queste parti con le riunioni dei capifamiglia, che governavano i borghi fin dal Medioevo, fin dal Patriarcato di Aquileia, autonomia virtuosa ed efficace. Per la prima volta i sindaci divennero protagonisti insieme alla Regione e insieme allo Stato. Funzionò la società civile e anche il volontariato, per la prima volta nella storia repubblicana, acquistò dignità politica che poi seppe spendere anche sul piano istituzionale.
Il terremoto in Friuli è uno spartiacque non solo per quella Regione, che acquistò forza e rafforzò l’ identità del suo popolo, ma anche per l’Italia. I valori di solidarietà e di altruismo entrano nei disegni di legge. Il Parlamento coglie l’attimo del cambiamento e lo trasforma in norma. Accade per l’Esercito che si guadagna sul campo la trasformazione da strumento solo per la difesa della Patria a quello anche di strumento per concorrere al “bene comune della collettività nazionale nei casi di pubbliche calamità”. Lo dice la legge numero 382 dell’11 luglio 1978, sigillo di quel cambio di umore nazionale nata tra le macerie del Friuli.
Le Forze Armate allestiscono 17.872 tende per oltre 116.000 posti letto. Vengono demoliti 2018 edifici pericolanti, effettuati 41 interventi con esplosivo per demolizione grandi manufatti; sono costruiti 118.000 metri quadrati. tra piazzali e strade, di 71 chilometri di rete fognaria, 266 chilometri di rete elettrica, 200 chilometri di rete idrica, 110 chilometri di marciapiedi e passaggi pedonali; vengono infine ripristinati 314 chilometri di viabilità, ricostruiti 8 ponti e sono rimossi oltre 1.800.000 metri cubi di macerie oltre a 540 metri cubi di frane.
Da una tragedia è nata la speranza di una terra unica
L’intervento coinvolge in totale 14.144 soldati dell’Esercito, vengono distribuiti 64 tonnellate di medicinali, 2.616 automezzi, 54 cucine da campo, 60 serbatoi d’acqua, e ben 64 elicotteri che furono utilizzati affinché interi agglomerati urbani non rimanessero isolati soprattutto dell’alta Carnia assicurando il necessario supporto logistico e morale agli sfollati. I militari furono impiegati per coadiuvare i contadini nel lavoro dei campi per permettere alle economie colpite dalla catastrofe di ripartire.
E quando a settembre altre due grandi scosse consigliarono l’evacuazione di molta parte della popolazione verso il mare dove il commissario Zamberletti requisì gli alberghi furono gli ufficiali della Julia a convincere insieme ai preti la gente che sarebbero tornati e il Friuli sarebbe rinato più bello di prima e senza perdere la sua identità. Ricorda oggi Giuseppe Zamberletti: “Io andavo nelle assemblee e mi portavo dietro il generale della Julia. La gente credeva più a lui che a me”. Il terremoto è diventato volano dello sviluppo, da una tragedia è nata la speranza di una terra unica. Nessuno in Friuli ha dimenticato e il motto 40 anni dopo ripetuto in questi giorni è “Il Friuli ringrazia e non dimentica”.