«Quelle non sono case famiglia». E’ questa la risposta della Papa Giovanni XXIII a Matteo Salvini che, ospite a Che tempo che fa, ha proposto una commissione d’inchiesta «sulle case famiglia che sono un business che lucra sulla pelle dei bambini arrivando a costare fino a 400 euro al giorno per ogni minore».
Puntuale è arrivata la reazione di Giovanni Ramonda, responsabile generale della comunità fondata da don Oreste Benzi. E’ sbagliato «gettare fango in maniera generica su una risposta preziosa e insostituibile con cui centinaia di coppie scelgono di fare da padre e madre di bambini e ragazzi, molti anche con gravi handicap, che non possono più stare nelle loro famiglie di origine».
Non a caso le case famiglia sono il cuore della Papa Giovanni di Rimini. La prima è nata nel lontano luglio del 1973 a Coriano, non certo per lucrare, ma «per dare una famiglia a chi non ce l’ha», secondo una meravigliosa intuizione che il carisma di don Oreste ha saputo trasformare in realtà vissuta.
Oggi le case famiglia della Papa Giovanni sono 253 in Italia e 45 all’estero, aperte anche a bambini con handicap, anziani e giovani in difficoltà. Perché don Oreste non voleva surrogati ma famiglie vere, con due figure genitoriali stabili e motivate, in modo che i bambini e i ragazzi non si sentissero assistiti ma scelti e amati come figli.
E il punto è proprio questo. «Quelle di cui parla Salvini non sono case famiglia», ribadisce Ramonda, invitando il segretario della Lega a visitare una qualunque delle loro realtà, «su questo tema si fa una gran confusione che non aiuta certo a dare ai bambini le risposte di cui hanno bisogno».
Proprio nei giorni scorsi infatti, ancor prima che prendesse corpo questa polemica, la Papa Giovanni aveva presentato alla Commissione parlamentare d’infanzia la proposta di modificare la legge 184/83 sull’affido e l’adozione dei minori, distinguendo appunto le vere case famiglia, caratterizzate dalla presenza di figure di riferimento genitoriale, da altre realtà prive di questa caratteristica fondamentale.
«Da quando sono stati chiusi i vecchi istituti», conclude infatti Ramonda senza mezze parole, «molte strutture si fregiano del nome di casa famiglia, mentre invece non hanno un papà e una mamma, come avviene nelle nostre case, ma operatori a turno, che oltre a costare molto di più, non rispondono al bisogno primario del minore».