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Referendum del Nord, la posta in gioco

20/10/2017  I lombardi e i veneti chiamati alle urne. Una consultazione che ha pochissime conseguenze sul piano istituzionale ma ne ha molte dal punto di vista politico. Ecco tutto ciò che c’è da sapere

Lombardia e Veneto rischiano di staccarsi dall’Italia, sul “modello catalano”? Calma. Naturalmente, comunque vada a finire, dopo i referendum regionali sull’autonomia del 22 ottobre non avverrà nulla di tutto questo (anche se i promotori giocano molto sulla suggestione di quel che sta avvenendo in Catalogna). In realtà il loro unico scopo è dare ai governatori Roberto Maroni e Luca Zaia un mandato popolare per avviare un dialogo istituzionale con il Governo e con il Parlamento.

I due referendum consultivi, privi di quorum, sono rivolti a 16 milioni di persone. Li hanno indetti i due presidenti di Regione leghisti, con il sostegno di tutto il Centrodestra, ma anche il voto decisivo del Movimento 5 Stelle (affascinati dall’idea di poter votare con il tablet) e perfino di numerosi sindaci e amministratori locali del Pd. Il quesito referendario veneto è secco: “Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”. Quello lombardo un po’ più articolato. A leggerlo ci vogliono circa 30 secondi: “Volete voi che la Regione Lombardia, in considerazione della sua specialità, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione e con riferimento a ogni materia legislativa per cui tale procedimento sia ammesso in base all’articolo richiamato?”.

Ma chi andrà a votare saprà già che deve scrivere “sì” per l’autonomia e “no” perché tutto resti come prima. In realtà queste due Regioni potrebbero già intavolare una trattativa con lo Stato sulla base dell’articolo 116 della Costituzione per ottenere più poteri sulle materie di competenza (le cosiddette materie “concorrenti”, quelle elencate nell’articolo 117 della Carta italiana: giudici di pace, ambiente istruzione, finanza pubblica e del sistema tributario eccetera). L’intesa fra Stato italiano e Regione, se arrivasse, dovrebbe poi essere ratificata con una legge che ha un iter lungo e appositamente “blindato”. Perché nonostante la parola “federalismo” sia stata molto pronunciata e molto in voga nella Seconda Repubblica, nei fatti, se andiamo sotto la superficie dei proclami, lo Stato non ha mai arretrato di un centimetro. Anzi.

Naturalmente i governatori di Lombardia e Veneto contano sul significato “politico” di una vittoria del sì. In pratica si presenterebbero di fronte al Governo per intavolare una trattativa forti del consenso dei lombardi e dei veneti («è arrivato il momento di contarci», ha proclamato ad esempio Zaia). Vi è poi un vecchio trucco della politica: quello di attribuirsi i consensi del referendum come se fossero voti al partito (Pannella era uno specialista nell’attribuire al Partito radicale gli esiti dei referendum). Dunque l’affluenza sarà determinante. Chi è contro l’autonomia può andare alle urne e votare no, ma forse ha più convenienza a stare a casa per rendere il più possibile insignificante il voto referendario. Sempre in un’ottica politica, la volontà è anche quella di modificare le regole fiscali e tenere nel territorio una più alta percentuale di tasse, avvicinandosi il più possibile alle Regioni a statuto speciale che si tengono quanto prelevano dalle tasse dei loro cittadini (un’anomalia da molti ritenuta antistorica). Ma anche questa è una faccenda assai complessa, essendo materia costituzionale.

(Foto in alto: Ansa)

 

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