Giovanni Bianchi, presidente dell’Associazione nazionale partigiani cristiani.
Piazzale della Falck di Sesto San Giovanni, 17 dicembre 1943. Non tutti i libri di storia riportano data e luogo, ma è anche da qui che passa il destino della Resistenza italiana. È il giorno in cui il generale Paul Zimmermann, comandante in capo delle SS, sale sulla torretta di un carro armato e davanti alle tute blu schierate al completo urla che è ora di finirla, gli scioperi devono cessare. Subito. Nessuno fiata, ma la linea dell’acciaio, già ferma da settimane, anche quel giorno resta in stallo. La notte, casa per casa, i primi rastrellamenti: 553 gli operai sestesi deportati in Germania. «In quel cortile c’era mio padre, capo della manutenzione della Falck e dei partigiani cattolici della città. E i miei zii, operai anche loro, arruolati tra le Brigate Garibaldi. Dormirono fuori casa e salvarono la pelle. Non fu così per zio Luigi: faceva il sarto, con la Falck non c’entrava, pensava di non avere nulla da temere. Finì a Mauthausen. Ma tornò vivo».
Giovanni Bianchi, classe 1939, presidente dell’Associazione nazionale partigiani cristiani, ricorda così quel giorno, tramandato di bocca in bocca in famiglia come un incrocio di destini. E attraverso quel momento rievoca una Resistenza particolare. Vissuta in una famiglia cattolica, nella città “rossa” per antonomasia, la “Stalingrado d’Italia” medaglia d’oro alla Resistenza. «In Russia le fabbriche resistevano all’assedio nazista di Von Paulus, da Sesto partì la rivolta delle industrie italiane per dare la spallata al regime».
A Sesto San Giovanni, polo industriale della metropoli milanese, la Resistenza gettò ponti inediti tra sponde che da sempre pensiamo distanti. «Il tesoriere del Comitato di liberazione nazionale era il parroco, don Enrico Mapelli», ricorda Bianchi, per anni presidente nazionale delle Acli e poi in Parlamento nella Dc e tra i Popolari. «I messaggi ai partigiani li passava lui, tra una decina e l’altra del rosario, recitato ogni giorno nel cortile della chiesa». Per anni si è addirittura favoleggiato di una mitragliatrice nascosta sotto l’altare maggiore: «Io non credo sia vero. Ma di certo i camerini della filodrammatica dell’oratorio San Luigi erano i depositi di fucili e munizioni di chi saliva in montagna. E dal circolo cattolico San Clemente partiva mio padre con i messaggi ai compagni in clandestinità». Compagni, a prescindere da fedi e colori. «Qui la Resistenza coinvolse tutti: chi combatteva, chi nascondeva, chi sapeva e copriva».
Fu un tappeto di solidarietà inedite, storie che si intrecciavano oltre gli steccati, a volte con finali da romanzo. È il caso di Mariuccia Mandelli, staffetta partigiana e segretaria di direzione della Magneti Marelli, altro colosso industriale del Sestese. «Una mattina irrompe nella stanza del capo, in odore di arresti, e gli ordina: “Apra la finestra e si butti giù: qualcuno la prenderà”. Quando arrivano, le SS non trovano nessuno». Dopo aver salvato “il padrone”, Mariuccia fa carriera nella Fiom. La sua tempra di femminista la lancia su ribalte nazionali e il segretario della Camera del lavoro la vuole al primo Parlamento repubblicano. «Ma a un certo punto, Mariuccia scompare: la cercano dappertutto, la trovano ad Assisi. È entrata nel monastero di clausura di Santa Coletta, così, senza dirne molto in giro. Ne è uscita un anno fa, da morta, dopo una vita in clausura».
Di questo moto di popolo, dunque, non solo a Sesto San Giovanni, la componente cattolica fu una vena netta, riconoscibile, ben delineata. Con sfumature e declinazioni diverse. «Nel Reggiano il capo dei partigiani era un certo Giuseppe Dossetti, fondatore della Dc, padre costituente e poi anima del Vaticano II al seguito del cardinale Lercaro. In montagna, il futuro don Giuseppe andava disarmato, partigiano senza fucile. Non così, a qualche chilometro di distanza, il suo amico Ermanno Gorrieri, poi in politica anch’egli, cattolico impegnato come pochi sui temi della famiglia: nelle montagne della sua Modena, Ermanno il fucile lo aveva. E lo usò».
Armi o meno, per Bianchi la Resistenza è stata «lotta di popolo, esperienza collettiva». Un azzardo in tempi di revisionismi. «Lotta di popolo è espressione che non mi spaventa. Provo a sintetizzare così: la nostra Resistenza si porta dentro tre anime. L’opposizione al fascismo, gelosa eredità della sinistra; il nuovo Risorgimento contro l’oppressore straniero, patrimonio dell’azionismo; guerra civile tra italiani, con annessa ormai sterminata letteratura, dall’opera (tutta) di Renzo De Felice al Claudio Pavone di Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, al Giampaolo Pansa de Il sangue dei vinti. Io dico: la Resistenza fu tutto questo, tra mille contraddizioni e tanti steccati ideologici. Ma di certo fu lotta di popolo, non di minoranza. Fu un sentire diffuso, ampio, a cui il cattolicesimo democratico non fu estraneo, anzi. Quella lotta non fu l’epopea di una élite combattente, ma di un popolo. Ed è così che bisogna raccontarla oggi».
Oggi che i comandanti cominciano a essere nomi e le voci vanno a spegnersi. «La Resistenza muore se la presentiamo come un mito da eroi. Ma non se ai nostri ragazzi raccontiamo il quotidiano di quelle scelte, le togliamo la glassa della retorica e la restituiamo a quel che fu».
Qualcosa che coinvolse ciascuno, volente o nolente, in modo drammatico, a volte poetico. Di certo rischioso e vitale, come è ogni bivio che ancora oggi si pone tra Resistenza e Resa.