Potrà sembrare irriverente, ma
il motto di Trapattoni “Non dire
gatto se non ce l’hai nel sacco”
è anche quello di Roberta
Benetti, la ricercatrice dell’Università
di Udine che nel 2010
ha scoperto le molecole
(miR-335) in grado di bloccare
la proliferazione tumorale. L’obiettivo è
curare il cancro grazie a molecole prodotte
dal nostro stesso organismo, evitando
così la più devastante chemioterapia.
- Ci spiega la sua scoperta del 2010?
«Si tratta di una ricerca che per la prima
volta ha dimostrato che una piccola
molecola di Rna, miR-335, è responsabile
nel controllo della sintesi e delle funzioni
dell’oncosoppressore Rb. Un oncosoppressore
è una proteina coinvolta nella
protezione dallo sviluppo dei tumori».
- Lei prepara la sconfitta della chemio
come unica terapia per il cancro.
«È così. La nostra scoperta, da un lato
potrebbe rappresentare una strategia per
stimolare le funzioni di freno alla proliferazione
tumorale esercitate da Rb e,
dall’altro, essere un punto di partenza
per fornire futuri bersagli terapeutici. La
sfida è enorme, ma le squadre che in Italia
si sono schierate per affrontarla hanno
le carte in regola per vincerla».
- I malati quando potranno beneficiare
di queste nuove cure?
«La ricerca non procede in modo lineare
per cui è difficile fare previsioni. Si
va per balzi discontinui con accelerazioni
imprevedibili, che tutti ci auguriamo.
Stiamo però collegando proficuamente
la ricerca di base a quella traslazionale».
- Cosa significa?
«La ricerca di base, alla quale appartengo,
non ha “obblighi” immediati sulla
salute, rappresenta la base di un’ipotetica
piramide della ricerca, deve essere
multivalente, aperta e creativa. Quella
traslazionale invece mira a produrre risultati
rapidamente trasferibili all’attività
clinica. Il camice da laboratorio deve
fornire informazioni utili da mettere in
pratica sul paziente, quello del medico garantisce
osservazioni capaci di innescare
spunti per esperimenti nei laboratori».
- Lei ha fama di essere schiva e riservata.
È sposata? Ha figli?
«Sono una donna fortunata: sono sposata
con Stefan che fa il mio stesso lavoro.
Ci capiamo e ci aiutiamo. Ho una
splendida bimba, Sofia. Dare e ricevere
amore come mamma e moglie mi fa lavorare
meglio, mi avvicina a capire meglio
chi se ne deve privare troppo presto».
- Studi in Italia, poi fuga in Spagna...
«Non sono scappata. Sono solo convinta
che un’esperienza estera arricchisca.
Ho avuto la fortuna di lavorare in un
laboratorio che focalizza gli studi sempre
nel campo dell’oncologia, ma da un
punto di vista diverso da quello che faccio
ora. Mi ha aperto nuovi orizzonti».
- Perché ha deciso di tornare?
«Mentre ero in Spagna ho vinto un
posto di ricercatrice all’Università di Udine.
Ho pensato che fosse un’ottima occasione
per costruire qualcosa nel mio Paese.
Ora guido un team di ragazzi speciali
che sono la mia vera forza».
- Che cosa frena la ricerca in Italia?
Stipendi bassi, burocrazia, scarsi investimenti
dello Stato?
«Tutte queste cose insieme. Noi ricercatori,
però, non ci dobbiamo scoraggiare.
Nonostante la limitata disponibilità
di risorse, la ricerca sul cancro nel nostro
Paese rimane ad alti livelli, a riprova della
capacità di ricerca dei nostri cervelli. È
il momento di non disperdere le risorse,
ma di concentrarle il più possibile».