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lunedì 16 settembre 2024
 
 

Roberta Benetti: tumori, l'Italia sa dove cercare

03/01/2014  La scienziata italiana che nel 2010 scoprì le molecole blocca-cancro ci parla del futuro della ricerca.

Potrà sembrare irriverente, ma il motto di Trapattoni “Non dire gatto se non ce l’hai nel sacco” è anche quello di Roberta Benetti, la ricercatrice dell’Università di Udine che nel 2010 ha scoperto le molecole (miR-335) in grado di bloccare la proliferazione tumorale. L’obiettivo è curare il cancro grazie a molecole prodotte dal nostro stesso organismo, evitando così la più devastante chemioterapia.

- Ci spiega la sua scoperta del 2010?
«Si tratta di una ricerca che per la prima volta ha dimostrato che una piccola molecola di Rna, miR-335, è responsabile nel controllo della sintesi e delle funzioni dell’oncosoppressore Rb. Un oncosoppressore è una proteina coinvolta nella protezione dallo sviluppo dei tumori».

- Lei prepara la sconfitta della chemio come unica terapia per il cancro.
«È così. La nostra scoperta, da un lato potrebbe rappresentare una strategia per stimolare le funzioni di freno alla proliferazione tumorale esercitate da Rb e, dall’altro, essere un punto di partenza per fornire futuri bersagli terapeutici. La sfida è enorme, ma le squadre che in Italia si sono schierate per affrontarla hanno le carte in regola per vincerla».

- I malati quando potranno beneficiare di queste nuove cure?
«La ricerca non procede in modo lineare per cui è difficile fare previsioni. Si va per balzi discontinui con accelerazioni imprevedibili, che tutti ci auguriamo. Stiamo però collegando proficuamente la ricerca di base a quella traslazionale».

- Cosa significa?

«La ricerca di base, alla quale appartengo, non ha “obblighi” immediati sulla salute, rappresenta la base di un’ipotetica piramide della ricerca, deve essere multivalente, aperta e creativa. Quella traslazionale invece mira a produrre risultati rapidamente trasferibili all’attività clinica. Il camice da laboratorio deve fornire informazioni utili da mettere in pratica sul paziente, quello del medico garantisce osservazioni capaci di innescare spunti per esperimenti nei laboratori».

- Lei ha fama di essere schiva e riservata. È sposata? Ha figli?
«Sono una donna fortunata: sono sposata con Stefan che fa il mio stesso lavoro. Ci capiamo e ci aiutiamo. Ho una splendida bimba, Sofia. Dare e ricevere amore come mamma e moglie mi fa lavorare meglio, mi avvicina a capire meglio chi se ne deve privare troppo presto».

- Studi in Italia, poi fuga in Spagna...
«Non sono scappata. Sono solo convinta che un’esperienza estera arricchisca. Ho avuto la fortuna di lavorare in un laboratorio che focalizza gli studi sempre nel campo dell’oncologia, ma da un punto di vista diverso da quello che faccio ora. Mi ha aperto nuovi orizzonti».

- Perché ha deciso di tornare? «Mentre ero in Spagna ho vinto un posto di ricercatrice all’Università di Udine. Ho pensato che fosse un’ottima occasione per costruire qualcosa nel mio Paese. Ora guido un team di ragazzi speciali che sono la mia vera forza».

- Che cosa frena la ricerca in Italia? Stipendi bassi, burocrazia, scarsi investimenti dello Stato?
«Tutte queste cose insieme. Noi ricercatori, però, non ci dobbiamo scoraggiare. Nonostante la limitata disponibilità di risorse, la ricerca sul cancro nel nostro Paese rimane ad alti livelli, a riprova della capacità di ricerca dei nostri cervelli. È il momento di non disperdere le risorse, ma di concentrarle il più possibile».

 
 
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