Era vera Sara Simeoni, anche allora, quand’era un’icona che incantava con i salti. Una persona, non un personaggio. Un monumento “alla mano”, che prendeva carta e penna per spedire l’autografo a una ragazzina sconosciuta. Era vera e si capiva. Anche ora i bambini che seguono il suo progetto di sport e fair play nelle scuole del veronese le credono pur non potendo ricordare. Non arretrano quando, armata di fischietto, li invita a sfidare un ostacolo di gomma piuma. Sara dà fiducia, come ne dava quando sapevi, che per quanto alta fosse la posta, in gara non avrebbe fallito. Sembra ieri e invece fanno 65 candeline il 19 aprile e 40 anni dal suo record del mondo: un salto da 2,01 scolpito tra storia e memoria. Sara racconta, mentre Erminio Azzaro fa gli onori della grande casa di Rivoli Veronese, “difesa” da un fortino austroungarico, affacciata sulle vigne, a un tiro dal lago di Garda.
Che cosa resta 40 anni dopo?
«Quando vedo che con quella misura si vince ancora un Mondiale indoor nel 2018, mi dico: che cosa abbiamo fatto? Allora presi dalla quotidianità, quasi non ci rendevamo conto».
Un lavoro da pionieri?
«Passando dal ventrale al Fosbury (il salto all’indietro visto per la prima volta ai Giochi del 1968 ndr.) bisognava azzerare ciò che si sapeva di salto in alto e inventarsi strade nuove. Non tutti vedevano bene che ad allenarti fosse il fidanzato: dimostrare di riuscire per noi era una sfida, divertente».
Quando ha capito di poter volare?
«All’Olimpiade di Monaco 1972: ero una studentessa (liceo artistico e poi Isef) che faceva atletica per hobby e sono arrivata sesta, a tre centimetri dal podio. Lì ho deciso di fare sul serio».
La famiglia come la prese?
«Si divertivano anche loro con le gare, mi lasciarono fare. Quando ho scelto di andare ad allenarmi al centro federale di Formia, a 700 km di treno di legno da casa, mi sentivo responsabile per il mio privilegio davanti ai miei tre fratelli: loro lavoravano già. Non volevo deludere né me stessa né loro. La distanza, senza cellulari, mi ha fatto crescere. Sapevo di poter contare su Erminio: la relazione tra noi mi dava la sicurezza che non avrebbe esagerato sulla mia pelle. Certo poteva capitare che dopo un allenamento storto si facessero scintille, ma lì abbiamo trovato l’equilibrio che dura ancora tra noi».
In gara come funzionava?
«Non era consentito parlarsi: lui nell’attesa fumava. Ha smesso quando io ho smesso di gareggiare. A me dava tranquillità il solo sapere che ci fosse. Lui soffriva ad assistere, ma a me piaceva da matti la sensazione di essere lì da sola ad arrangiarmi».
È questa la mentalità agonistica?
«Credo di sì. Non vivevo l’avversaria come nemica. Mi dicevo se va bene posso fare questo, se va male è un gioco, che vuoi che succeda? Mi alleggeriva il fatto che l’attenzione all’epoca fosse tutta sulle gare maschili: ci consideravano molto meno, anche se poi il peso delle medaglie era uguale».
Agli Europei 1978 a Praga rifece 2,01 già fatto a Brescia il 4 agosto, fu l’anno con le sensazioni migliori?
«In quella gara augurai alla mia avversaria (Rosemarie Ackermann, ndr) di fare ciò che voleva, sapevo che avrei fatto un centimetro in più. Non ho mai più avvertito una sicurezza simile».
Prima di Brescia aveva mai provato la misura del record del mondo?
«Una volta, poco prima in Finlandia: una delle tre prove non era stata malvagia. Quel giorno a Brescia avevo fatto 1,98 e ho sentito che se avessi ripetuto identico il salto avrei passato 2,01. È stato così. Ai Giochi di Los Angeles 1984 ho chiesto 2,02, ma, appagata dall’argento quando mi davano per finita, l’ho tentato senza convinzione».
A Mosca, L’Occidente boicottò i Giochi si è sentita defraudata senza inno e bandiera o è “bastato” vincere? «Le migliori c’erano tutte, è stata una gara tosta, l’unica che ho davvero sofferto: entrando ho sentito degli italiani col tricolore gridare “Sara siamo con te” e ho capito di giocarmi l’occasione della vita: venti minuti di voglia di piangere, batticuore, tremori. Ma, per mia fortuna, non sapevamo allora che esistesse l’attacco di panico, in qualche modo l’ho gestito e ho vinto l’oro senza finire dallo psicologo».
Sull’Est pesavano sospetti di doping, ha mai avuto la sensazione che l’ambiente “incoraggiasse”?
«Non mi interessavano le misure da baraccone, mi bastava quello che riuscivo a fare da sola, tanto vincevo lo stesso. Mi sono trovata a un certo punto isolata, se non ti adegui fai paura, la cosa strana è che poi ero io a prendere la medaglia. Avrei potuto sfogarmi quando vincevo. Ma poi mi dicevo: che importa? Ho vinto io...».
Era notissima, la popolarità è mai stata indiscreta?
«Non avevamo filtri, nel 1979 forse inconsciamente spaventata, in gara oltre l’1,95 mi bloccavo. In pedana mi lasciavano giusto lo spazio per la rincorsa. Un po’ ansiogeno ma bello: forse se dopo 40 anni mi ricordano è perché si sono potuti avvicinare. Quando però, durante il restauro della foresteria di Formia, ci spostarono all’hotel Miramare, bellissimo, ma con frequenti feste di matrimonio, scappai: mi presi del colore e mi rivernciai una stanzetta per trovare tranquillità».
Che cosa c’era di diverso da oggi?
«Diventavi qualcuno con i risultati, ora si diventa personaggi prima di farli. Anche a me, all’epoca, chiesero di raccontare che avevo lasciato Erminio per un altro. Ho scelto di restare me stessa, ho preferito la mia libertà. Anche se poi, nella vita, non essere “signor sì” ha un prezzo che si paga».