«Gli uomini passano le loro idee continuano a camminare sulle gambe di altri uomini». L'abbiamo sentita ricordare da tanti, negli anni, questa frase attribuita a Giovanni Falcone. Da tanti che in questo lungo tempo si sono impegnati a non tradirne la memoria, da tanti che sentono, più o meno legittimamente, di averne raccolto l'eredità, ma anche, giusto dirlo, dai troppi estimatori postumi. Sarà la storia a dire chi è stato all’altezza dell’esempio e chi no, noi non ne abbiamo l'autorità, però ci piace l'idea di ricordare Giovanni Falcone, e con lui Paolo Borsellino che 57 giorni dopo ne ha condiviso consapevolmente la vita e la morte e con loro gli angeli custodi che li seguivano per proteggerli, pensando al gesto, in questo caso non tanto metaforico, del “camminare”.
Abbiamo pensato di farlo partendo da un fatto oggettivo: dalla scelta di un piccolo drappello di magistrati, che, oscuri nell’ombra, hanno accettato, subito dopo le stragi di Capaci e Via D'Amelio, di andare a farsi carico di quel che c'era da fare, di "migrare" per una fetta della loro vita a Caltanissetta, nel cuore arido della Sicilia devastata dalle bombe, per coprire i buchi della piccola Procura scoperta, competente per i reati riguardanti magistrati di Palermo, improvvisamente gravata dalla responsabilità delle indagini sulle stragi. Non erano lì. Non ci si sono trovati per una coincidenza della storia, ci sono andati.
Neanche dieci giorni dopo Capaci, arrivarono Carmelo Petralia, Paolo Giordano e Pietro Vaccara, i primi due da Catania, il terzo da Messina, tutti siciliani, tutti poco più che quarantenni, nominati il 2 giugno del 1992. Nelle parole di Petralia, pronunciate quel giorno, c'è l'idea di come si stava: «Ci hanno chiesto la nostra disponibilità e noi andiamo», commentò alla notizia dell'applicazione avvenuta, «ma nessuno è in possesso di bacchette magiche. Speriamo, non appena i riflettori puntati su questa triste vicenda si spegneranno, di non rimanere soli, senza uomini e mezzi e con un codice di procedura penale inadeguato a combattere la mafia».
Non restarono soli. Dopo un’altra mezza tonnellata di tritolo, quando "le tristi vicende" erano diventate due, altri due magistrati sbarcarono sull’isola, il 2 novembre, in spregio a ogni scaramanzia. Ilda Boccassini, 43 anni, veniva da Milano, 975 km da casa. Era la più lontana fisicamente, ma aveva avuto il tempo e il modo di mettere il nuovo codice di procedura penale, in vigore dal 1989, alla prova di un'indagine di mafia andata a sentenza di primo grado a Milano proprio il giorno dei funerali di Falcone. Fausto Cardella, 42 anni, arrivava da Perugia, 650 km da casa. Erano tutti al massimo un nome in cronaca.
Nessuno, tranne pochi addetti ai lavori, probabilmente, in quei giorni, si è accorto della loro partenza. Ma quando nel novembre 1993 - alla conferenza stampa che faceva il punto sulle prime ordinanze di custodia cautelare per Capaci - li abbiamo visti in faccia per la prima volta, dopo un anno di lavoro, e li abbiamo sentiti dire che almeno sulla strage di Capaci il quadro si stava facendo chiaro, la loro presenza lì, il loro gesto, sono stati la prova tangibile, che non tutto era finito a via D'Amelio, che Falcone aveva avuto ragione: altri avrebbero fatto vivere le cose in cui lui e Borsellino avevano creduto.
Sappiamo bene che non sono stati gli unici, sappiamo che le stesse cose vivono quotidianamente nell'esperienza di tante altre persone non citate qui: colleghi, amici, forze dell’ordine, giovani magistrati che sui crateri aperti hanno preso impegni morali non meno significativi. Ma in quel migrare, in quel dire sì, in quel preciso momento, ciascuno con le proprie motivazioni personali, con i tormenti che certamente ha comportato il distacco dagli affetti e dalla quotidianità della vita normale, c'è stata una fisicità, se così si può dire, potentemente simbolica. Se, con il tritolo alle spalle e molte centinaia di km davanti, avessero detto “no grazie, tengo famiglia”, nessuno avrebbe osato eccepire. Forse nessuno, fuori dalle loro stanze, se ne sarebbe accorto.
Nessuno avrebbe avuto da ridire se Gian Carlo Caselli, da Torino, non avesse chiesto di andare nel 1993 a guidare la Procura, prestigiosa ma laceratissima, di una Palermo che sembrava Beirut. Però hanno detto sì e allora è tempo di ricordare, non solo perché non si può dire che in questi vent’anni si siano sprecati i ringraziamenti, ma perché nel passato ha radici il presente. La Direzione distrettuale di Milano guidata da Ilda Boccassini ha in corso contro la 'ndrangheta il primo maxiprocesso di criminalità organizzata al nord. La Procura guidata da Gian Carlo Caselli, a Torino, si sta occupando del secondo. Saranno pure coincidenze, ma si continua a camminare.
GIAN CARLO CASELLI: "IL GIORNO CHE LA SCORTA MI MASCHERO' DA JOGGER PER SALVARMI LA VITA"
La cosa buffa, se così si può dire senza mancare di rispetto, della vita di Gian
Carlo Caselli è che sembra un film, la cosa serissima è che non lo è. È stata,
ed è ancora, un’azione, complicata e rischiosa, senza controfigure, senza possibilità
di un ciak di riserva. Anche se, raccontata da qui, nella calma apparente di
una mattina comunque frenetica del settimo piano della procura di Torino,
nel suo ufficio investito dal sole, sembra tutto lontano. E invece no, nessun
luogo lo è, Palermo meno di tutto. Non lo è neppure il 1992, e non solo perché
in queste ore tutti chiedono una testimonianza. Non lo è perché certe scelte
lasciano segni permanenti: diversamente sarebbe impossibile cogliere a fondo
l’assurdo paradosso che grida dai muri “Caselli mafioso”, bestemmia laica
di un Paese senza memoria.
Dott. Caselli, ricorda come e quando ha davvero deciso migrare a
Palermo, di candidarsi come Procuratore capo del cosiddetto Palazzo dei veleni,
cui sarebbe arrivato nel 1993, dopo una tonnellata di tritolo tra Capaci e Via
d’Amelio?
«Era il 19 luglio del 1992. Ero stato invitato con il professor Carlo Federico
Grosso a un dibattito per ricordare Giovanni Falcone, ma quell’incontro non
avvenne mai, interrotto prima di cominciare dalla notizia che Paolo Borsellino
e la sua scorta erano morti a via D’Amelio. Grosso ricorda, più nitidamente di
me, che sull’auto del ritorno, guidavo io dietro avevamo l’auto della Polizia
che ci scortava, d’istinto, gli dissi: “Chiedo di andare a Palermo”. Immaginavo
al posto di Borsellino come procuratore aggiunto. Solo dopo si è liberata la
carica di Procuratore».
Fu un gesto emotivo o l’esito di un percorso?
«L’esito di un lungo percorso che ha un antefatto negli anni Ottanta, in cui
sono stato membro del Csm, in cui ho visto susseguirsi tanti “casi Palermo”, in
cui ho visto Giovanni Falcone canditato a succedere a Caponnetto alla Procura
di Palermo, scavalcato da Antonino Meli, deciso – l’aveva spiegato al Csm con
grande trasparenza – a smantellare il lavoro del Pool che aveva perfezionato il
cosiddetto “metodo Falcone”: un sistema organizzato per affrontare il crimine
organizzato, culminato nell’immenso successo del maxiprocesso. Un successo
fatto sì di numeri ma soprattutto nella dimostrazione che, non solo la mafia
esisteva - cosa che fino ad allora molti mettevano in dubbio -, ma che si
poteva contrastare, a patto di non agire disorganizzati come l’armata
Brancaleone. Meli, digiuno di mafia, ottenne Palermo - il Csm aveva
privilegiato il criterio dell’anzianità - e attuò il suo piano: i magistrati
del Pool tornarono a fare di tutto un po’ e Falcone, con tutte le porte
che a Palermo gli si chiudevano in faccia, fu costretto a “migrare” a Roma,
all’allora ministero di Grazia e giustizia. Lì con la sua intelligenza, il suo
coraggio, la sua caparbietà avrebbe messo in atto su scala nazionale lo
straordinario strumentario antimafia contro cui la mafia s’è vendicata con le
stragi».
Borsellino disse che Falcone aveva cominciato a morire quando fu bocciato per la Procura di Palermo, lei ha cominciato a migrare nello stesso momento?
«In qualche modo. Quando dopo le stragi tutti constatiamo le famose parole di Caponnetto: «Non c'è più niente da fare è tutto finito», capiamo che bisogna tirarsi su le maniche perché altrimenti da uno stato democratico, pur con i suoi difetti, andiamo a sbattere tutti contro un narco–stato, uno stato-mafia governato da un potere criminale stragista. Diventare “migrante” è stata la mia maniera di contribuire».
Che cosa gliel’ha fatto fare?
«Lo spirito di servizio, il senso del dovere, lo dico senza retorica, ma anche per riconoscenza nei confronti di Falcone e Borsellino e poi l'amaro in bocca, non so definirlo diversamente, che mi era sempre rimasto da membro del Csm, perché io avevo sempre votato per Falcone, ma ero rimasto in minoranza. Non che mi sentissi colpevole, ma mi pesava il non essere riuscito a far valere le buone ragioni di Falcone che poi erano le buone ragioni della democrazia in lotta contro la mafia».
Questo lungo antefatto fa pensare a una decisione più tormentata che istintiva. Quanto rovello è costata?
«E’ stata tormentatissima, con tanti confronti prima di tutto all'interno della mia famiglia, poi con i colleghi e gli amici, tra questi un ruolo centrale ha avuto don Luigi Ciotti che poi, per risarcimento gli dico sempre scherzando, creerà Libera, l’associazione a sostegno dell'antimafia. È stata una decisione difficile, che i miei familiari hanno accettato e sostenuto senza riserve, anche se magari non la condividevano pienamente. Avevo scelto che mia moglie e i miei due figli nati nel 1970 e nel 1975 restassero a Torino, per esporli di meno, credo sia stato giusto, mi sono reso conto solo dopo che le esperienze estreme sono peggiori vissute da fuori che da dentro. Se sei dentro vivi, se sei fuori è terribile».
Anche perché Palermo in quel momento non era un posto tranquillo in cui infilarsi… «La scorta l’avevo dagli anni del terrorismo, dal 1974, ma sapevo che a Palermo sarebbe solo aumentata. Palermo era in guerra e Capaci e Via D’Amelio erano la prova della potenza distruttiva, sapevo anche che, dopo le stragi, avrei avuto un apparato di protezione che più ampio non avrebbe potuto essere. La scorta ti salva la vita, ma te la cambia. In Sicilia io non ho vissuto blindato ma prigioniero. In quei sette anni si è attentato più volte alla mia vita, ma per fortuna la scorta era efficientissima oltreché molto fantasiosa».
Fantasiosa?
«Lo dico con affetto e gratitudine. Mi hanno salvato la pelle tante volte,
coniugando spietatezza e cordialità, ma me ne hanno fatte di tutti i colori. Abitavo
solo in un palazzo di otto piani, vuoto, con un ascensore che portava
direttamente da casa mia al garage sotterraneo, con il filo spinato alla porta,
i sacchi di sabbia e un uomo armato di tutto punto sul pianerottolo. Ma il
difficile era uscire di casa la mattina e rientrarci la sera: quel percorso
obbligato era prevedibile e dunque pericoloso: ogni giorno dovevano inventarsi
qualcosa».
Per esempio?
«Ricordo che una
mattina - io sono un animale notturno, ci metto un po’ a svegliarmi - vedo che
mi tolgono la borsa di mano. Poi mi sfilano la giacca e mi infilano la casacca
di una tuta da ginnastica. Mi sveglio del tutto quando mi accorgo che sopra i
pantaloni mi fanno infilare i calzoni della tuta e mi accorgo che sono vestiti
così anche loro. Eravano “mascherati”, doveva sembrare che facessimo jogging.
Avevano deciso che sarei andato al lavoro correndo attraversando un pezzo del
parco della Favorita fino al punto in cui avevano sistemato le auto blindate.
Mi fecero correre per un paio di chilometri e per orgoglio istituzionale cercai
di non farmi staccare, da loro che avranno corso anche piano, ma erano uomini
della polizia di stato dei nocs, ventenni e trentenni superallenati: mi sa che
se non sono morto d’infarto quella mattina, sono stato fortunato».
C’era tempo di aver paura nella solitudine di una vita così?
«No, il lavoro era tale e tanto che la sera crollavo sfinito. Abbiamo avuto
una slavina di pentiti, raccogliere le dichiarazioni, riscontrarle, svilupparle
era un lavoro immane e forse mi è servito da autodifesa. E poi io non chiedevo
mai niente alla scorta, non mi dicevano il perché, facevano e basta».
Le è capitato di accorgersi di un rischio concreto?
«Sì, senza sapere niente di preciso però. Me ne accorgevo perché
improvvisamente cambiava qualcosa. Ricordo che una sera arrivò il Questore di
Palermo e, dandomi appena il tempo di prendere lo spazzolino, mi trasferì dal
palazzo in cui stavo all’aeroporto militare di Boccadifalco, dove non vivevano
civili. Ho saputo solo di recente, da una deposizione di Gaspare Spatuzza,
proprio qui a Torino, che c’era un piano, andato vicino a concretizzarsi, per
sparare un missile dal Monte Pellegrino sul palazzo in cui abitavo.
Evidentemente avevano fiutato quello quando finii in caserma. Non c’è stato un
istante della mia vita fuori da Palazzo di giustizia in cui io potessi decidere
di me: era la scorta a decidere che cosa si poteva fare e come. Però ha
funzionato allora e finora sono qui, anche se Cosa nostra ha la memoria lunga».
Nemmeno il Palazzo di giustizia quando ci arrivò era un luogo di pace, che cosa trovò arrivandoci dal Nord?
«I corvi volavano ancora, i veleni che avevano intossicato il palazzo di giustizia e lasciato soli Falcone e Borsellino erano ancora lì con tutti i contrasti. Alla prima riunione chiesi a tutti di guardare avanti, di dimenticare tutto il passato tranne il bagaglio professionale che Falcone e Borsellino ci avevano lasciato. E devo dire che tutti sono riusciti a tornare a lavorare insieme, anche quelli che non avrei immaginato potessero. Se non ci fossimo riusciti, sarebbe crollato tutto».
Pensa che “la sua estraneità” di uomo del Nord abbia contribuito?
«Di certo una persona che non aveva avuto parte nelle polemiche, al di là del nome su cui la scelta è caduta, era stata considerata più adatta a comporre i contrasti. E così è stato».
È stato un problema affrontare tutto quello che c’era da fare con regole cambiate da poco, dato che il nuovo codice di Procedura penale era in vigore solo dal 1989?
«E’ vero che bisognava ripensare l’esperienza passata, perché veniva meno la figura del giudice istruttore, che era tipica dell’esperienza di Falcone e Borsellino e nostra ai tempi del terrorismo. Dal 1989, la prova si forma in dibattimento e questo è un progresso di civiltà giuridica. Il problema arriva dopo quando viene approvato l’articolo 513, che impedisce di utilizzare come prova le dichiarazioni di un pentito rese al Pubblico ministero, già riscontrate e ritenute attendibili, a meno che non le ripeta in aula, dove magari è intimidito dalla mafia. Questo non accade in nessun Paese civile».
Oggi ci sono due maxiprocessi di criminalità organizzata al Nord. Uno è a Milano, l’altro è a Torino. E’ un caso che, a capo della direzione distrettuale antimafia da una parte e a capo della Procura dall’altra, ci siano due persone che hanno vissuto la Sicilia di quegli anni?
«Sarei presuntuoso se dicessi di sì. Il capo della Dda è Sandro Ausiello, gran parte di quell'indagine è sua ed è cominciata quando c'era al mio posto Marcello Maddalena. Sono, sì, molto attento a quest'indagine perché mi ringiovanisce un po'. L'esperienza siciliana può entrarci perché certi meccanismi saltano magari all'occhio, ma indosserei penne di pavone che non sono mie. Qui faccio il capoufficio, a Palermo ero in prima linea».
Dopo tutto questo che effetto le fa, vent’anni dopo, leggere sui muri “Caselli mafioso”?
«Mi vien da ridere, non mi indigna neanche tanto è paradossale. Ma mi dà anche da pensare perché o chi lo scrive è un vecchio arnese che ha vendette da consumare o è un giovane ignorante. Dare del mafioso a me è come dare... non so vorrei fare degli esempi ma non mi viene niente di così stupido. Il problema è che ignoranza e violenza sono un mix pericoloso».
FAUSTO CARDELLA: "LAGGIU' HO IMPARATO UN METODO, MI RAMMARICA IL FATTO CHE SAPPIAMO CHI E COME HA UCCISO A CAPACI, MA NON IL PERCHE'"
Di Fausto Cardella
colpisce la franchezza pacata, mischiata alla ritrosia iniziale, per niente
affettata. Colpiscono l’onestà intellettuale e il racconto scarno, senza
fronzoli, a distanza di sicurezza da ogni possibile retorica, di un’esperienza
estrema come se fosse normalità. Quasi che fosse una cosa naturale sentirsi
chiedere di andare in prima linea, a bruciapelo, prendere o lasciare, senza
preavviso né tempo di pensare. E andarci, senza enfasi, con altrettanta
normalità. Da Perugia dove faceva il sostituto procuratore, si è ritrovato
sprofondato a Caltanissetta, cuore della Sicilia profonda e delle indagini
sulle stragi. Il fatto che proprio là fosse nato è stato solo un capriccio del
destino. Oggi è capo della Procura di Terni e che si sappia non ha mai parlato
di quei giorni. Vent’anni dopo, senza traccia di vanità, ci fa entrare nelle
stanze in cui ha vissuto 14 mesi di una vita, che non è stata più la stessa
fuori di lì.
Partiamo dalla cronaca di una decisione non annunciata: come finì in
Sicilia nel 1992?
«Quel giorno avevo incontrato a un convegno Gianni Tinebra, da poco capo della
Procura di Caltanissetta. Erano i primi di ottobre del 1992. Ci conoscevamo
anche se non bene, mi chiese se fossi disposto ad andare a lavorare a
Caltanissetta. Si trattava di stare via almeno sei mesi e chiesi di
pensarci. Mi rispose: “Pensaci con comodo, stasera mi dai una risposta”. Tutto
stava nell’intendersi sul comodo. Ci pensai qualche ora, telefonai al mio
ufficio, per capire come avrebbero preso un lungo distacco, e alla fine diedi
la mia disponibilità. Ero separato, sostanzialmente solo. La rapidità della
decisione non mi dispiacque, era anche nel mio carattere, ammetto che a volte
nella vita uno stile diverso mi avrebbe evitato qualche errore, in quell’occasione,
invece, credo che mi sia andata bene, molto bene».
Che cosa le ha fatto dire di sì?
«Lo dico sotto voce, perché potrebbe non essere una cosa bella, la chiamerei
ambizione, la possibilità di andare a lavorare a un’indagine da Formula 1. E
anche il fatto di essere stato richiesto. Poi ci sono state ragioni
personali, anche un po’ il fatto di tornare nella mia città d’origine».
Il fatto di essere nisseno le ha facilitato almeno la logistica?
«No, ero venuto via da bambino. Arrivai il 2 di novembre e nella hall
dell’albergo, dove sarei stato in quei 14 mesi, incontrai Ilda Boccassini che
era appena arrivata. Eravamo noi due in quel momento i principali referenti cui
venne affidata l’indagine sulle stragi. Il pool era composto dal Procuratore
Tinebra, da noi, da Giordano, Petralia e Vaccara, ma gli altri si occupavano
anche di un’altra indagine sulla mafia nissena. Ilda e io, invece, a tempo
pieno sulle stragi. Il lunedì pomeriggio si faceva una riunione per fare il
punto sul fatto e sul da farsi. Il sabato e la domenica si faceva il possibile
per tornare a casa, almeno finché a causa dell’organico striminzito non ci pregarono
di fare anche i turni di distrettuale e di approfittare a volte
dell’ospitalità anche nel weekend».
Qualcosa ci suggerisce, che dopo una tonnellata di tritolo,
l’ospitalità non fosse rilassata. Sbagliamo?
«Ciascuno di noi aveva una stanza, comoda, in un’ala
riservata, chiusa solo per noi, cui si accedeva solo superando il controllo
degli alpini. Facevano la guardia alla porta e, alle nostre finestre, da un
cortile sul retro, che non ricordo bene perché non ci sono mai stato, ma in cui
li vedevo passeggiare. Una vita appartatissima la nostra, anche dal resto
dell’albergo. La sera finivamo tardi di lavorare, telefonavamo in albergo e ci
facevano trovare in camera una cena fredda».
Verrebbe da dire: che tristezza…
«Eppure io in quelle sere tornavo, trovavo sul tavolo della mia stanzetta
il piatto e cenavo, se non proprio con allegria, con benessere interiore. Il
dato che io ricordo di quel periodo è una grande soddisfazione, per quello che
si faceva, per come lo si faceva, per l’ambiente che c’era. C’era un rapporto
pienamente soddisfacente e rasserenante, soprattutto con Ilda Boccassini, che è
stata la svolta della mia vita professionale».
C’era tempo di pensare alla solitudine di quella vita?
«Era solitudine sì, però piena. Lavoravamo con il ritmo imposto – non lo dico
con accezione negativa – da Ilda Boccassini che era ed è una lavoratrice
infaticabile. Il ritmo di lavoro riempiva la giornata e l’anima. Non avrei
potuto sostenere quel tour de force per sempre, però in quel periodo mi diede
un grande appagamento professionale e umano. Mi faceva stare intimamente bene
sentire di lavorare nel modo giusto, anche grazie a colleghi di maggiore
esperienza. Ilda era la più esperta del gruppo, aveva svolto indagini antimafia
che hanno fatto scuola ed era una studiosa, credo che poche persone come lei
conoscessero bene le carte. Documentatissima, informatissima su quel c’era da
fare e da sapere. Io mi ero già occupato di antimafia, avevo già gestito
collaboratori di giustizia, ma quando ho cominciato a farlo con lei, mi sono
accorto del cambio di passo. Ho imparato il metodo».
È quello che chiamano il metodo Falcone?
«Vorrei evitare un’espressione abusata. Direi un metodo da professionista: in
questo senso potremmo considerarlo il metodo di Falcone, perché Falcone era un
grande professionista. Lo dico per dare un senso alle parole, per non scivolare
nella retorica».
Quando parla della soddisfazione "di fare le cose nel modo
giusto", pensa anche alla consapevolezza di fare una cosa che intimamente
si sentiva giusta?
«Sì, ma non giusta moralmente, perché quello attiene al perché e al come
uno fa il magistrato. Spero di non deludere nessuno nel dire che né io, né -
credo di poterlo dire - Ilda Boccassini si sia andati lì armati di sacro fuoco,
pensando di combattere e vendicare. Ci siamo andati con spirito laico,
consapevoli di avere a che fare con un’indagine importante, che andava
affrontata con la freddezza e con il distacco necessari. In quel momento, se
emotività c’è stata, abbiamo cercato di dominarla completamente».
È stato complicato l’aspetto emotivo, lei conosceva Falcone e Borsellino?
«Li conoscevo entrambi, avevamo buoni rapporti di cordialità, avevo fatto l’uditorato a Palermo quando c’era Borsellino, anche se non proprio con lui, e conoscevo Falcone dai tempi in cui avevo avuto la prima nomina a Marsala. C’era un buon rapporto di conoscenza e di colleganza, ma non mi sentirei di dire che eravamo amici. Se sia stato diverso per Ilda, che di Falcone era amica, bisognerebbe chiederlo a lei, ma difficilmente parlerà. Quello che posso dire è che nell’esercizio dell’attività professionale non mi sono mai accorto dell’incidenza dell’emotività: se l’aveva, l’ha tenuta a bada con grande controllo. Anzi, ho visto applicato con assoluto rigore il metodo “avvocato del diavolo”.
Può spiegare ai profani in che cosa consiste?
«L’atteggiamento critico, la capacità di non innamorarsi mai delle proprie ipotesi, soprattutto di quelle più plausibili, lo sforzo di attaccarle con il massimo del distacco per verificarne la saldezza. Questo è il metodo che ho visto e mi sono sforzato di applicare, questo è ciò che credo di avere imparato vivendolo quotidianamente nel giro di quell’anno e mezzo. Io sono rimasto fino alla conclusione delle indagini preliminari, sapevo che non avevamo il tempo per sostenere l’accusa in dibattimento (le applicazioni erano prorogabili per legge a un massimo di due anni. I dibattimenti e gli otto armadi di carte accumulati sarebbero stati ereditati da altri magistrati subentrati successivamente ndr.). Un po’ cominciavo a sentire il desiderio di tornare a casa, a Perugia stava arrivando da Roma il processo Pecorelli e c’erano pressioni a che io tornassi. Mi sembrava di avere concluso un capitolo, inutile iniziarne un altro. Erano i primi del 1994».
La conclusione definitiva del vostro lavoro si è vista nel 2008 quando la Cassazione ha confermato definitivamente le 36 condanne per Capaci, la cui indagine avete fatto in tempo a portare a termine fino all'ordinanza di rinvio a giudizio, entro la scadenza dei vostri mandati. Che sensazioni ha avuto a quella notizia?
«Quando faccio un’indagine mi pongo sempre il problema che debba reggere fino alla Cassazione, diversamente è lavoro inutile. Poi, una volta che io ho fatto un lavoro nel modo migliore in cui io sia capace di farlo, non rimango appeso in attesa. È chiaro che è gradita la conferma avuta per Capaci, ma non mi ha risolto professionalmente la vita».
Anche se è quello uno
dei pochi paletti certi di un paese non risolto?
«La sensazione di non risolto resta, perché non tutti gli interrogativi hanno
avuto risposte. Sappiamo chi ha ucciso a Capaci e come, ma non sappiamo perché.
Questo è il tormento che mi porto dentro come magistrato, come modestissimo
partecipante a quell’esperienza investigativa, ma soprattutto come cittadino».
Falcone diceva che solo gli incoscienti non hanno mai paura, il
problema è conviverci. C’è stato il tempo di avere paura?
«Avevamo un apparato di protezione rassicurante: parlo di una sensazione, non
saprei dire se fondata. Ci sembrava che lo Stato si interessasse al nostro
lavoro e lo agevolasse, c’era condivisione da parte di tutti, in questo clima
il tempo di avere paura non c’è stato, non è stata una preoccupazione perché
quello che si poteva fare per evitarlo è stato fatto. Non è che io sia un tipo
fatalista, ma se paura c’è stata, nascosta in qualche cantuccio del nostro
animo, non è mai affiorata, non ha mai portato a conseguenze esterne. È la cosa
per me meno importante di quel periodo».
Quali erano le difficoltà maggiori?
«Dal punto di vista personale i colleghi che avevano una famiglia strutturata
avranno avuto certamente problemi, che ciascuno ha risolto a proprio modo e in
cui io non posso entrare. Per me era soprattutto importante rientrare per
dedicare tempo a mia figlia. Difficoltà professionali sì, perché era
un’indagine estremamente complessa e lì la guida di Ilda è stata determinante».
Un figlio significa responsabilità per altri, come si fanno i conti con
la sua preoccupazione?
«Certo è un problema che c’è: mia figlia aveva 14 anni, e io spero che quello
che io ho vissuto non abbia avuto conseguenze psicologiche su di lei. Io ho
avuto la scorta per nove anni, dopo, la mia libertà personale è stata limitata
e questo è stato faticoso anche per lei. Ma ho sempre pensato da genitore che
con i ragazzi si possa e si debba sempre parlare, non stancarsi mai di spiegare
le cose, anche se magari non afferrano i concetti più complessi, capiscono il
tono: un figlio capisce, anche se magari in maniera incompleta, che una cosa va
fatta, che papà, o mamma, in quel momento sanno quello che stanno facendo.
Credo sia questo l’unico modo di salvare le cose che si crede di dover fare e
insieme i propri affetti, le proprie responsabilità di padre. Poi c’è chi
altrettanto legittimamente fa scelte diverse, io non so dire quale sia la
risposta giusta. Il nostro in condizioni normali è un lavoro tendenzialmente
stanziale, ma c’è una frase di Giovanni Falcone che ricordo: “Se mi dovesse
succedere qualcosa, altri magistrati continueranno, non finisce tutto”. Ecco sì
questo ha avuto una sua influenza».
La scelta ha avuto
conseguenze sulla sua vita a lungo termine?
«Il virus della scorta contratto a Caltanissetta ha avuto conseguenze sulla mia
vita pratica e di relazione, anche perché ero diligente: non rispettare le
consegne, uscire di nascosto sarebbe stato irrispettoso nei confronti degli
uomini che si occupavano di me. Ricordo tanti Capodanni passati a casa,
scendendo a mezzanotte a brindare con quelli che stavano fuori a far la
guardia. Ma questo appartiene al passato».
C'è anche un seguito che attiene al presente?
«Le domande che ci siamo posti a quell’epoca, alcune delle quali non hanno ancora
trovato risposta, (e speriamo che prima o poi la trovino, lo dico con uno
scontato ottimismo della volontà), continuano a tormentarmi. Non che non ci
dorma ma spessissimo mi interrogo. Se non avessi vissuto da dentro
probabilmente mi porrei queste domande come me le pongo su altri eventi ormai
quasi storici, anche se questo purtroppo è di un’attualità drammatica.
Invece il fatto di aver giocato una partita o, se si preferisce, di aver fatto
il raccattapalle in una partita dà a quelle domande un peso e un significato
diverso e più profondo. E poi mi è rimasto il senso di squadra, il rapporto di
stima reciproca mantenuto con tutte le persone con cui ho lavorato allora, la
considero la migliore assicurazione sul fatto di non avere lavorato troppo male,
e di questo sono un po’ fiero».
Lo rifarebbe?
«Mah, probabilmente sì. Un po’ fa parte del mio carattere di magistrato, non me
le vado mai a cercare, ma se mi dovesse capitare non mi tirerei indietro. Anche
questa non me la sono andata a cercare, se Tinebra non mi avesse detto
"vieni", non mi sarebbe venuto in mente di offrirmi. In questo senso
lo rifarei».
ILDA BOCCASSINI, UNA MADRE NELLA TRINCEA DELLE STRAGI
Bisogna mettere sottosopra gli archivi, srotolare indietro il tempo fino all'aprile 1994, disseppellire una lezione tenuta a Frascati a un corso di aggiornamento per magistrati, per avere un ricordo di quei giorni nisseni firmato Ilda Boccassini. «Non c'è tempo per illustrare quello che abbiamo vissuto in termini umani», scriveva in coda alla relazione, «Lontani dalle famiglie, io un anno e mezzo, Fausto (Cardella ndr.) 14 mesi. Siamo stati attaccati da molti quando si lavorava sodo e in silenzio: "Ma cosa stanno facendo?", dicevano in tanti. E noi ci sentivamo addosso la responsabilità di quei morti, anche verso i parenti che chiedevano giustizia. Ci ha aiutati molto il senso di umanità, il fatto che non vi era tra noi alcuna conflittualità, che credevamo in quello che facevamo ed eravamo consapevoli dei pregi e dei difetti di ciascuno. Certo, abbiamo avuto anche duri momenti di confronto e di scontro, dovevamo scaricare tra noi anche tutta la solitudine che vivevamo, perché siamo vissuti blindati per un anno e sei mesi e non è ancora finita. Però, questo è stato fondamentale: mai ci ha sfiorato la necessità di comparire. Io condanno il protagonismo sotto tutti gli aspetti. Attenzione a queste cose, ci danneggiano. Conta molto invece l'umanità, il riconoscerci per quello che siamo con i nostri difetti e i nostri pregi. Ricordatelo, è importantissimo lavorare insieme. E questa è l'unica forza che ci ha permesso di andare avanti».
Ilda Boccassini in questi vent'anni ha fatto del suo meglio – con scarso successo per la verità e non per colpa sua - per non soffiare sul fuoco di una notorietà, imposta da inchieste e risultati, che ha subìto, senza alimentarla, nella convinzione, questa sì ribadita sovente controcorrente se necessario, che il silenzio a volte sia un prezzo da pagare al ruolo: una consegna che ha rispettato anche quando s'è trattato di ingoiare attacchi volgari.
S'è circondata di una scorza ruvida, ha negato interviste, rifiutato inviti: un rosario di "no grazie" e di "no comment". Le parole pubbliche, spesso cantate fuori dal coro a costo di rischiare l'impopolarità dentro e fuori la magistratura, ci sono state, con parsimonia, quando proprio non si poteva negare all'opinione pubblica una spiegazione o ai ragazzi di una scuola la testimonianza, senza telecamere però, di un'Italia di stragi di cui non potevano avere ricordi. Per convincerla ad apparire una volta in Tv c'è voluta l'autorevolezza di Enzo Biagi. E' stato 14 anni fa. Tre minuti in 33 anni di magistratura. Il resto sono immagini di repertorio.
Anche per questo sappiamo poco della sua scelta di andare in
Sicilia, il poco che ha raccontato in una sera insolitamente carica di
emozioni, voluta in ricordo di Paolo Borsellino, un 19 luglio di qualche anno
fa alla biblioteca di Palermo: in quell'occasione chiarì che non aveva, «come
tante volte si legge sui giornali, chiesto di andare», ma che aveva – come
Cardella -risposto a una chiamata.
Parlò di «Una scelta dolorosa», della
lacerazione tra il senso di colpa, indelebile negli anni, per il prezzo della
lontananza pagato dai suoi figli e il ricordo dei corpi dilaniati della scorta
di Falcone che chiedevano di andare avanti. Parlò di responsabilità verso le
famiglie delle vittime, di dignità, di coerenza, di solitudine. Parlò di una
scelta che le «ha sconvolto la vita personale».
Alla fine di un puzzle di parole che lasciavano intendere la
stima avuta da Giovanni Falcone, con cui aveva a lungo collaborato e di cui era
amica, e, per suo tramite, da Paolo Borsellino che conosceva poco di persona,
concluse: «Non potevo non andare».
Lontana da sempre, distanze siderali, dalla retorica
dell'eroismo, che in questi giorni fluirà a fiumi senza la sua complicità,
quella sera a proposito di Falcone e Borsellino non parlò mai di coraggio né
mai di eredità, soltanto di «rigore, indipendenza, professionalità, senso dello
stato». Le stesse ragioni, probabilmente, per cui non poteva non andare.
IL PUNTO SU CAPACI, 23 MAGGIO 2012
L’indagine sulla strage di Capaci ha retto fino in Cassazione, la parola
fine su mandanti ed esecutori materiali di quella strage è stata messa dalla
suprema Corte nel 2008, con la conferma delle condanne che ci dicono come e da
chi sono stati uccisi Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Vito
Schifani e Antonio Montinaro. La Procura di Caltanissetta sta ancora provando a
rispondere alla domanda: “Perché?” dopo che nel 2009 le dichiarazioni del
pentito Spatuzza hanno aperto nuovi spiragli. Il capo della Procura Sergio Lari
conferma, in un’intervista rilasciata in coda al libro di Maria Falcone e
Francesca Barra Giovanni Falcone un eroe solo, che si tratta di approfondire e che nulla di quello che
recentemente è emerso scalfisce l’impianto dell’indagine portata avanti a
ridosso della strage: «Per ragioni di riserbo investigativo», si legge nel
libro, «non posso aggiungere altro ma ritengo doveroso evidenziare che si
tratta di indagini ancora in corso che non mettono in discussione i risultati
processuali ottenuti nei processi già celebrati sulla strage di Capaci, ma che
mirano, semmai a individuare ulteriori responsabilità rispetto a quelle già
accertate giudiziariamente. In altri termini, ciò significa che le nuove indagini,
diversamente da quanto verificatosi per la strage di Via D’Amelio, non
scagionano nessuna delle trentasei persone che sono state condannate in passato
per la strage di Capaci, tutti personaggi di spicco di Cosa Nostra».
VIA D'AMELIO, VENT'ANNI DOPO UN CANTIERE GIUDIZIARIO ANCORA APERTO
Via D’Amelio è un cratere ancora aperto anche dal punto di vista
processuale. Tre processi non sono bastati a fare luce sulla morte di Paolo Borsellino, Emanuela
Loi, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Fabio Li Muli, Claudio Traina e Agostino
Catalano e un processo Borsellino quater si aprirà
probabilmente presto a Caltanissetta. L’indagine e i successivi processi, tra
depistaggi e ritrattazioni, hanno cominciato a deragliare nell’estate del 1994
quando Vincenzo Scarantino ha iniziato a collaborare con i magistrati
autoaccusandosi del furto della 126 imbottita di tritolo, esplosa in Via
D’Amelio. Lo smentiranno le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, nel 2009,
facendo crollare un impianto che aveva retto in Cassazione, non senza
contrasti. Eppure già ai primi di ottobre del 1994, poco prima che scadesse il
suo mandato nisseno, Ilda Boccassini, come testimoniano due relazioni, una
delle quali firmata anche dal collega Roberto Sajeva della Dna, aveva espresso
per iscritto ai colleghi e al capo della Procura nissena di allora i suoi dubbi
in merito all’attendibilità di Scarantino, cui neppure la Procura di Palermo
avrebbe poi dato credito. Sette
condannati all’ergastolo in conseguenza delle accuse del falso pentito
Scarantino sono stati scarcerati nell’ottobre del 2011. Scarantino e altri tre
che hanno sostenuto le sue dichiarazioni sono ora rinviati a giudizio per
calunnia aggravata. Il resto sono domande aperte: chi ha voluto il depistaggio?
Perché Scarantino ha dichiarato il falso calunniando se stesso e altri? Perché
i dubbi emersi non sono stati ascoltati?
23 MAGGIO 2017, DOVE SONO ORA
Gian Carlo Caselli è stato a Palermo sette anni, dal 1993 al 1999. Oggi è capo della Procura di Torino.
Ilda Boccassini ha lasciato definitivamente Caltanissetta, alla scadenza dei due anni, nell’ottobre del 1994. Nel 1995 ha lavorato sei mesi a Palermo chiamata da Caselli. Oggi è procuratore aggiunto a Milano, coordina la Direzione distrettuale antimafia.
Fausto Cardella è rimasto a Caltanissetta 14 mesi. È tornato a Perugia ai primi del 1994. Oggi è capo della procura di Terni.
Carmelo Petralia è diventato nel 1993 sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, in quel ruolo ha potuto continuare ad affiancare per qualche tempo i colleghi della Procura nissena. Oggi è capo della Procura di Ragusa.
Francesco Paolo Giordano è diventato nel 1993 procuratore aggiunto a Caltanissetta, in quel ruolo ha rappresentato la pubblica accusa in udienza al processo per la strage di Capaci. Oggi è capo della Procura di Caltagirone.
Pietro Vaccara è rimasto a Caltanissetta dieci mesi. È morto nel 2009, era Procuratore aggiunto a Messina.
LA BIBLIOTECA PER CHI VUOLE SAPERNE DI PIU'
Maria
Falcone e Francesca Barra, Giovanni Falcone un eroe solo. Rizzoli.
Maria
Falcone, sorella di Giovanni, ricorda i due volti di Giovanni Falcone, Giovanni
privato bambino e ragazzo, ultimogenito, cullato da una famiglia avvolgente
eppure a suo modo austera, Falcone uomo amato da una donna che sapeva di
condividerne un destino rischioso, Falcone magistrato, solo, isolato,
invidiato, circondato in vita di pochi fidati amici, inspiegabilmente
moltiplicatisi in morte.
Le ultime parole di Falcone e Borsellino, a cura di Antonella Mascali, Chiarelettere.
È un’antologia dei pochi scritti che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno lasciato, parole pubbliche, lezioni, incontri. Un modo di far parlare loro, dopo che tanti, forse troppi, in questi giorni parleranno di loro.
Alex Corlazzoli, L'eredità, Altraeconomia.
Prova a guardare che cos’è rimasto di Falcone e Borsellino, scavando tra voci insospettabilmente diverse, senza pretesa di asepsi: magistrati, collaboratori di giustizia, amici, l’autore, che all’epoca era bambino e che ha ricostruito la loro memoria da adulto. Un libro che non pretende esaustività, però vivo, affettuoso.
Francesco Viviano e Alessandra Ziniti Visti da vicino, Aliberti.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, visti dagli amici non famosi, non magistrati, non forze dell’ordine, non eredi, amici della quotidianità, del lato oscuro della loro blindata e breve vita, che però ha nelle immagini raccolte qui una sua allegria, forse non spensierata, ma comunque allegria. Bella scrittura.
Salvatore Borsellino e Benny Calasanzio Fino all'ultimo giorno della mia vita, Aliberti.
Dai ricordi d’infanzia alla tragedia, all’impegno di oggi: il fratello di Paolo Borsellino racconta lato intimo di una famiglia che è entrata eroicamente e tragicamente nei libri di storia.
Attilio Bolzoni Uomini soli. Pio La Torre, Alberto Dalla Chiesa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Melampo.
Il racconto corale, scritto da chi li ha conosciuti, di quattro uomini che hanno condiviso, prima del loro tragico destino, un'immensa solitudine.
I classici
Giovanni Falcone con Marcelle Padovani, Cose di Cosa nostra, Bur.
L'esito di una lunga intervista di Giovanni Falcone alla giornalista di Le nouvel observateur, nel 1991, quando Falcone aveva appena lasciato Palermo.
Paolo Borsellino, Oltre il muro dell'omertà, scritti su verità giustizia e impegno civile, Bur.
Gli scritti privati e gli appunti di Borsellino. Una raccolta di riflessioni che toccano argomenti ancora attuali: carcere duro, riforma della giustizia, divisione delle carriere, lotta alla droga, intercettazioni e pentiti e, soprattutto, la pericolosa convergenza di interessi fra le mafie e alcuni settori dello Stato. Ma anche scritti più personali,come la durissima commemorazione dell'amico Giovanni Falcone
Per ragazzi
Alberto Melis, Da che parte stare. I bambini che diventarono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Piemme.
Alberto Melis, attraverso le parole delle loro sorelle, Maria Falcone e Rita Borsellino, ricostruisce l'infanzia dei due magistrati con l'intento di ricordare ai ragazzi il loro esempio, ma anche di dare un messaggio di speranza. Perché è da piccoli che si sceglie di stare dalla parte giusta del mondo.
Luigi Garlando, Per questo mi chiamo Giovanni, Rizzoli.
Un modo gentile, ma non edulcorato, di raccontare ai bambini la storia di Giovanni Falcone. Il giorno del suo decimo compleanno un papà regala al suo bambino, nato il 23 maggio 1992, una giornata al mare: è venuto il momento di sapere perché si chiama Giovanni.
In memoria degli angeli custodi
Laura Anello, L'altra storia nel racconto dei famigliari Falcone, Borsellino e le vite spezzate a Capaci e in via D'Amelio, Sperling&Kupfer.
L'altra faccia del coraggio: non solo Falcone e Borsellino ma le storie degli otto angeli custodi che vigilavano sulla loro vita e sono morti con loro, servitori dello stato come loro, ma destinati a restare nell'ombra. Ricordarli era un dovere.