Un grave errore compiuto dai medici o un tentativo di falsificazione dei referti per morire a ogni costo? Aleggia questo atroce dubbio sulla vicenda di Pietro D’Amico, il magistrato calabrese, originario di Piscopio, che l’11 aprile scorso, dopo essersi rifugiato in una clinica svizzera, ha scelto di togliersi la vita con il “suicidio assistito”. Un gesto da brivido, ingoiato dalle pareti indifferenti della sua camera ospedaliera a Basilea e registrato dallo sguardo “professionale” di chi ha creduto di aiutarlo.
Quale la causa di un atto così estremo e ingiustificato? A quanto risultava fino a tre mesi fa, una “malattia incurabile” certificata da alcuni medici specialisti italiani e poi confermata da preposti sanitari svizzeri. Chiuso in un dolore straziante che lo avrebbe portato a non condividere la gravità del suo problema con la moglie e la figlia, l’ex Pm ha agito da solo. Si è mosso nella convinzione di porre fine alle sue inutili sofferenze.
Ma una più attenta ricostruzione dell’accaduto ha messo in luce un’altra versione dei fatti. Della tanto temuta patologia in fase terminale non c’era nessuna traccia. A rivelare questa agghiacciante verità ha provveduto il dott. Michele Roccisano, amico di Pietro D’Amico e legale di sua moglie. Per farlo, ha atteso i risultati dell’autopsia condotta dall’Istituto di Medicina legale dell’Università di Basilea sul corpo del D'Amico, alla presenza del perito di parte dei due parenti del giudice. Si tratterebbe, dunque, di un tragico e fatale errore medico, almeno secondo quanto afferma il legale. Una grave negligenza che pare possa aver autorizzato il suicida a effettuare un'erronea valutazione del proprio stato di salute, poi amplificata da un umore fortemente depresso. Siamo di fronte a un risultato paradossale che rischia di generare serie conseguenze sul fronte giudiziario.
L’avvocato Roccisano ha le idee chiare a riguardo: «Avrebbero dovuto sottoporre il paziente a esami strumentali specifici. Esami a cui il D’Amico non fu mai sottoposto». Il magistrato era certo di essere affetto da una malattia grave e incurabile, mostrava segni evidenti di depressione e iniziava a far insospettire i suoi cari. «L’errore scientifico può avergli dato quella terribile conferma per poi spingerlo a richiedere l’assistenza della clinica di Basilea», puntualizza il legale. La magistratura italiana, a quanto sostiene infine Roccisano, sarà chiamata a stabilire se i medici autori della diagnosi siano responsabili di un errore medico, frutto di negligenza piuttosto che di imperizia. Allo stesso tempo, gli inquirenti svizzeri dovranno verificare eventuali responsabilità a carico dei sanitari d’oltralpe.
Resta il dubbio sul ruolo della depressione che affliggeva Pietro D’Amico: è stata la diretta conseguenza della diagnosi infausta o, al contrario, la causa incontenibile del desiderio di morire, così forte da indurre il magistrato a falsificare i referti medici?