Secoli di arte cristiana hanno rappresentato quell’evento ai limiti delle possibilità di rappresentazione che è la risurrezione. Neppure i Vangeli la raccontano direttamente: si rimanda alla tomba vuota, alle apparizioni del Risorto... Similmente gli artisti hanno preferito la via del simbolo e della metafora alla rappresentazione esplicita. Compaiono così una serie di elementi che produrranno alcune tipologie nell’illustrare la risurrezione: la tomba vuota, la croce gloriosa, la luce in varie forme... Ci guida, in un viaggio appassionante tra generazioni di artisti, il giornalista e appassionato di arte Piero Pisarra.
LA TOMBA VUOTA E LA CROCE GLORIOSA
Il primo simbolo della risurrezione? La croce. Una croce gloriosa, nuovo albero della vita, non a caso adorna di gemme primaverili e di fiori oppure sormontata da una corona a indicare la vittoria sulla morte, come nei sarcofagi delle catacombe romane e in numerose testimonianze dell’arte bizantina. Sembra un paradosso, ma non lo è. Come rappresentare ciò che è proclamato ma non narrato, annunciato ma non descritto? I Vangeli ci parlano del prima e del dopo, di una tomba vuota e di un giovane o di un angelo dall’aspetto «come folgore» e dal «vestito bianco come neve», che alle donne andate al sepolcro con gli aromi dice: «Non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto» (Matteo 28,1-7). Su questa scarna trama si innestano le varianti, da un Vangelo all’altro. In Luca e Giovanni, gli uomini «in abito sfolgorante» – o gli angeli – sono due. In Marco e Matteo, uno solo. Matteo aggiunge un particolare che avrà molta fortuna nell’arte rinascimentale e barocca: le guardie tramortite dallo spavento all’apparizione dell’angelo (28,4). Nessuno, però, racconta il momento cruciale «in presa diretta». Quell’evento che per i cristiani dà senso al mondo e alla storia si svolge senza effetti speciali, senza testimoni. Perché al mistero si addicono soltanto il silenzio e lo stupore. Lo spazio del racconto si restringe per lasciare il campo libero alle risposte di ognuno, alla fede o all’incredulità. Come se ogni evangelista, ha notato l’esegeta americano Raymond E. Brown, avesse voluto dire ai lettori: «Quale sarebbe stata la vostra reazione al tempo della prima pasqua?». Avreste reagito come le pie donne, come Maria Maddalena, come Pietro o come Tommaso? Anche per questo, alle rappresentazioni esplicite, gli artisti hanno preferito il simbolo o la metafora: la croce gloriosa o una tomba vuota. Con una sottolineatura che sarà più evidente nel corso dei secoli nelle varie testimonianze pittoriche: la luce, nella forma di un alone, di una mandorla o di un’aureola, il biancore che simboleggia la vita nuova.
Sceso a liberare i prigionieri
«Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio... E nello spirito andò a portare l’annuncio anche alle anime prigioniere, che un tempo avevano rifiutato di credere» (1Pietro 3,18-19).
LA DISCESA AGLI INFERI
Nell’arte bizantina, a partire dall’VIII-IX secolo, la risurrezione è associata alla discesa di Gesù agli inferi. In veste bianca, il Risorto scende a liberare i progenitori dell’umanità Adamo ed Eva. Il Figlio si inoltra nelle profondità della terra, affronta le tenebre, per riportare alla luce l’uomo, ogni uomo, senza escludere i giusti dell’antichità che non lo hanno conosciuto. È un atto, canta la liturgia bizantina del Sabato santo, che «scuote l’inferno dalle fondamenta» e lo «svuota». E restituisce agli uomini la loro dignità di figli di Dio. «Come un cercatore di perle ti sei immerso negli inferi, per cercare la tua immagine inghiottita dalla morte», dice Efrem il Siro, la «cetra dello Spirito santo» (IV secolo). «Come un povero e un miserabile sei sceso e hai sondato l’abisso dei morti; e la tua misericordia è stata ricompensata, perché ha visto Adamo ricondotto all’ovile». Da alcune brevi annotazioni del Nuovo Testamento (Atti degli apostoli 2,29-32; Prima lettera di Pietro di 3,18-20), i padri della Chiesa e gli autori spirituali ispirano così il modello che sarebbe divenuto canonico tra i cristiani d’Oriente: l’Anástasis, o Risurrezione, intesa come un tutt’uno con la discesa nell’Ade. Così la vediamo nelle icone più antiche, nei mosaici e negli affreschi. Come nella chiesa del Santo Salvatore in Chora, a Istanbul (1321). Qui, un Gesù danzante, ancora più maestoso perché inquadrato dal basso, afferra per mano Adamo ed Eva riportandoli alla vita. Sotto i suoi piedi, le porte degli inferi e gli strumenti della prigionia, chiavi, serrature, catenacci, ormai inutili, sprofondano nelle tenebre, dove resta soltanto il demonio, incatenato e impotente. Il tema sarà ripreso anche in Occidente, da Duccio (nella Maestà del duomo di Siena, XIV secolo) al Beato Angelico.
L’uomo dei dolori glorificato
«Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente... Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi... Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire... Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce» (Isaia 52,13-53,12).
IL VINCITORE DELLA MORTE
Giotto sceglie, invece, un’altra strada raffigurando nella stessa scena gli angeli seduti sul sepolcro vuoto, le guardie tramortite e l’incontro di Maria di Magdala con il Signore risorto (Giovanni 20,11-18). A Padova, nella Cappella degli Scrovegni (1303-1305), vediamo Maria protendersi verso Gesù che con la mano le fa segno di non avvicinarsi: è il Noli me tangere di tanti dipinti, in cui il Signore è rappresentato con la vanga o la zappa da giardiniere (così Tiziano, nella tela ora alla National Gallery di Londra, 1514). Giotto, però, non si sofferma sul fraintendimento di Maria, che pensò di avere davanti a sé il custode del giardino e non Gesù risorto. Agli attrezzi da giardiniere sostituisce uno stendardo su cui è scritto: «Victor mortis». Ogni equivoco è dissipato: ecco il Signore della vita, vincitore della morte, che come gli angeli indossa una veste bianca con i bordi d’oro. Già apparso nella storia dell’arte, il motivo del vessillo, associato spesso alla croce vittoriosa, diverrà un topos, un emblema frequente della risurrezione, dalla fine del Medioevo in poi. Il pittore fiammingo Dieric Bouts (1400 ca.-1475) ce ne offre un’interpretazione di intensa spiritualità in un dipinto ora al Norton Simon Museum di Pasadena (tempera su lino, 1455 ca.). Gesù, appena uscito dalla tomba, regge con la mano sinistra una croce alla quale è legato uno stendardo, rosso come il suo vestito. Con la destra accenna un gesto di benedizione, il volto lievemente malinconico: la morte è vinta, ma le piaghe subite non sono cancellate né nascoste. Un angelo vestito di bianco punta il dito indice verso il Risorto, nel gesto che l’arte riserva di solito a Giovanni il Battista: «Ecco l’Agnello di Dio». Due guardie giacciono tramortite, mentre una terza sembra proteggersi da quella visione. In un paesaggio appena rischiarato dalla luce dell’alba, si intravedono a destra, sullo sfondo, le tre donne che vanno al sepolcro con gli aromi. Anche qui la contemplazione del mistero prevale su ogni sottolineatura del prodigioso o dello spettacolare. Nel clima della devotio moderna, il movimento che in terra fiamminga poneva l’accento sull’imitazione di Cristo nelle cose più semplici della vita di ogni giorno, Bouts invita alla preghiera e al raccoglimento interiore, proponendo uno schema che sarà ripreso da molti altri. Giovanni Bellini, che probabilmente aveva ammirato a Venezia la tela del fiammingo, se ne ispirerà in una tavola di piccole dimensioni ma di grande fascino, ora al Kimbell Art Museum di Fort Worth, in Texas (Cristo risorto benedicente, 1500 ca.). Un primo piano «cinematografico», splendida sintesi di teologia e di spiritualità, in cui tutto è suggerito, senza bisogno di essere gridato o sbandierato. Anche le piaghe sembrano cicatrizzate e dal volto di Cristo, dai tratti meno severi rispetto al fiammingo, si irradia una tenue luce soprannaturale, a formare tre punte di una croce a mo’ di aureola. È il Signore che ha vinto il male e la morte, simboleggiati dalla gazza sull’albero alla sinistra, e che innalza uno stendardo fuori dal nostro campo visivo. I colori del cielo, striato da nubi illuminate dai primi raggi del sole, rendono il paesaggio – la campagna veneta con un bel campanile sullo sfondo – quotidiano e soprannaturale al tempo stesso. Con un tratto naïf, rappresentato dai due conigli di colore diverso che giocano in primo piano.
DA LENZUOLO FUNEBRE A SIMBOLO DI GLORIA
La scena cambia con Mathis Grünewald (1480–1528). Il Cristo risorto del retablo di Isenheim è ritratto in un movimento ascensionale, a mezz’aria, con il sudario che, trascinato fuori dal sepolcro, si trasforma in una veste dai colori abbaglianti, da lenzuolo funebre a simbolo di gloria. Quello stesso Gesù che vediamo in un altro pannello con il corpo orrendamente piagato, uomo dei dolori «senza apparenza né bellezza» (Isaia 53,2), ora si manifesta come sole di giustizia. Gli Antonini o Antoniti, l’ordine religioso che curava il «mal degli ardenti», il cosiddetto «fuoco di sant’Antonio», avevano collocato l’altare nella sala dei malati del convento di Isenheim, in Alsazia. Non una visione consolatoria a buon mercato, non la promessa di un lieto fine, nonostante le sofferenze del tempo presente, ma l’immagine di un Dio che condivide la condizione mortale e che, avendo conosciuto l’annientamento e la morte, ci rende partecipi anche della sua gloria. Quel modello iconografico – Gesù che risorge in un cerchio di luce mostrando le piaghe alle mani, le guardie che stramazzano a terra in movimenti convulsi e violenti, il sudario che da bianco assume le tonalità infuocate del rosso e del giallo – ha affascinato forse più di ogni altro gli artisti del nostro tempo. Nel Novecento, l’espressionista tedesco Otto Dix, osteggiato dai nazisti come interprete della cosiddetta arte degenerata, non ha mai cessato di confrontarsi con Grünewald. E così l’inglese Graham Sutherland nell’arazzo del Cristo in gloria realizzato per la cattedrale di Coventry nel 1961 o nella Crocifissione del 1946 dipinta per la St. Matthew’s Church di Northampton, opera di un iperrealismo che rinvia esplicitamente al retablo di Isenheim. Senza dimenticare il francese Arcabas, nome d’arte di Jean-Marie Pirot: la Risurrezione del 1998, opera monumentale in acrilico e oro destinata alla chiesa parrocchiale Saint-Paul di Meythet in Alta Savoia, attenua la violenza grünewaldiana, elimina il contrasto tra la luce e le tenebre, accentua il carattere glorioso della scena, aggiungendo un coro di angeli attorno al Risorto.
L’ATTIMO FUGGENTE DELLA RISURREZIONE
Ma tra i grandi artisti del passato è Rembrandt, più di un secolo dopo Grünewald, il vero rivoluzionario, con una scelta che per un calvinista rasenta la bestemmia: mostrare la figura di Cristo al momento della risurrezione. Dopo aver esitato e cambiato idea più volte, il maestro olandese alla fine osa l’inosabile. Nella tela del 1639 ora alla Alte Pinakothek di Monaco, tutto è giocato sull’opposizione tra luce e tenebre, ordine e caos, calma e panico. Quella a cui assistiamo è un’esplosione di dinamite, e di luce. La pietra del sepolcro è scoperchiata da un angelo avvolto da un bagliore intenso. Energia incontenibile che terrorizza i soldati: uno tenta di proteggersi inutilmente con lo scudo, gli altri cadono in un fragore di ferraglie. Bisogna soffermarsi a lungo, prima di scorgere sulla destra la figura di Gesù ancora avvolta nel sudario. Come se l’incertezza dell’artista non fosse stata del tutto vinta. Come se l’emergere del Risorto dal sepolcro non fosse il centro della scena. Ma è proprio questa esitazione – o questa resistenza del credente Rembrandt a figurare ciò che non può essere figurato – a dare maggiore forza alla composizione. Che taluni giudicano pasticciata, ma che mitiga il terrore del sacro con il più umano tremore, il sentimento che nasce di fronte all’inaudito o al mai visto. E che non spinge a chiudere gli occhi, ma ad aprirli. Alla fede e alla speranza. Rembrandt si rivela così il più moderno dei moderni. Prima che la Risurrezione sia rappresentata dal russo Vasilij Kandinskij (1866-1944), dal francese Alfred Manessier (1911-1993) e da altri contemporanei come esplosione solare, modulazione di onde luminose, big bang della nuova creazione.